Requiescat in Soviet (parte terza)
La Russia di oggi
La Federazione Russa è decisamente figlia del periodo post-sovietico, del crollo economico, sociale, istituzionale e della disfunzionalità del periodo El’cin.
Con lo scioglimento formale dell’URSS nel 1991 e la mancata elezione di Gorbaciov nel 1993 il Partito Comunista originale finì per avere un’evoluzione declinante.
Allo stesso tempo le privatizzazioni selvagge e l’emersione delle mafie nate dentro i gulag portarono ad un rapido declino dell’ordine istituzionale e pubblico, tutt’ora non del tutto ristabilito.
Spesso e volentieri la figura di Putin viene dipinta in due modi, con elementi allo stesso tempo comuni e contrastanti. Entrambe le descrizioni sembrano più il frutto di propaganda ed immaginari politici diversi, che concrete descrizioni dell’attuale Presidente della Federazione Russa.
Il primo consenso, spinto da gruppi politici UE filorussi, vede un agente del KGB che ha ripreso da dove aveva lasciato Andropov, in contrasto con l’eredità di Gorbaciov, le follie e il caos di El’cin assieme ad una supposta intesa tra CIA e mafia per truccare le elezioni del ’93 e riformare l’economia russa secondo gli interessi degli Stati Uniti.
Il secondo consenso, spinto da gruppi politici USA antirussi, è che Putin sia un ex agente del KGB, con una carriera abbastanza irrilevante, che ha sfruttato il caos della Russia degli anni ’90 per scalare velocemente la gerarchia di San Pietroburgo e Mosca con l’aiuto di oligarchi e mafiosi, imponendosi nel contesto di un paese ormai irrecuperabilmente corrotto.
Nessuno dei due consensi è veramente esaustivo ed entrambi prendono delle verità per poi distorcerle, secondo le necessità politiche del momento.
Primo elemento fra tutti ad essere distorto è l’origine stessa di Vladimir Putin, nato a San Pietroburgo nel 1952 da una famiglia semplice, e cresciuto tra le strade della città ed una casa popolare di epoca stalinista, detta “Komunalka”.
Forte di una storia da “Homo Novus” e delle probabili connessioni del padre, Putin entrò nel KGB probabilmente già durante il periodo della laurea in diritto internazionale, conclusa nel 1975. Da lì in poi si fece strada senza particolare trambusto o rapidità raggiungendo il grado di Tenente Colonnello entro la fine della sua carriera, coincidente con il colpo di stato del 1991, anno in cui si licenziò.
La narrativa più accreditata è che non abbia mai partecipato ad alcuna importante azione sotto copertura, se non quella di scrivere rapporti confidenziali da inviare a Mosca riguardo l’operato della Stasi di Dresda.
Probabilmente Putin fu in realtà coinvolto ad alti livelli nella gestione e coordinamento dei rapporti con gruppi paramilitari tra cui la “RAF” (Rote Armee Fraktion) della Germania dell’ovest, famosa per aver partecipato all’“autunno tedesco” del 1977.
Pur stridendo con elementi del suo passato e del suo futuro il consenso sulla mediocrità dell’impiego di Putin è finora rimasto predominante.
Finisce però per andare un po’ a cozzare con quello che Putin fece, una volta divenuto capo delle guardie del corpo dell’amico e sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak.
Catapultato improvvisamente in una Russia dove le autorità sovietiche erano esautorate, il governo cercava di spingere con difficoltà riforme impopolari che avrebbero definitivamente distrutto l’impalcatura del KGB e la mafia dominava tutto il resto, Putin, ovviamente, faticava.
E faticava in tutto, incluso il tenere in vita Sobchak, comprendere a che punto fosse la guerra per il controllo del territorio a San Pietroburgo, se avrebbe potuto ottenere una scrivania nel nuovo FSB…
Quel che non faticava a capire era la nuova costituzione della Federazione Russa scritta da Sergei Alexeyev, Sergey Shakhray, Anatoly Sobchak, da vari avvocati Americani dello USAID e revisionata da 800 membri della Camera Costituente.
Ancora meno faticava a comprendere lo scontro tra il Parlamento ed il governo di El’cin avvenuto nel 1993 dopo il rifiuto del Soviet Supremo di approvare la nuova costituzione, e ancora il (costituzionalmente corretto) rifiuto dell’organo legislativo di riconoscere il potere di sciogliere le camere al suddetto Presidente.
Conclusosi questo in un sanguinoso attacco delle Forze Speciali per espugnare dal Parlamento (chiamata “Casa Bianca”) una fetta maggioritaria del Soviet Supremo, Putin concluse che l’URSS non sarebbe tornata.
Ed in realtà non avrebbe potuto importargliene di meno.
Dopo aver abbandonato il KGB nel 1991 con il tentativo di colpo di stato, Putin cercava di costruire una vita diversa che potesse garantire alla famiglia stabilità.
Allo stesso tempo visse effettivamente il crollo dell’URSS come un’umiliazione principalmente per i risvolti istituzionali ma non per amore dell’ideologia che essa rappresentava, tanto da dire nel 1999 del Comunismo: “Un vicolo cieco, distante dalle correnti principali della civiltà”.
In linea con questa analisi visse effettivamente il fallito colpo di stato e il crollo dell’URSS come un’opportunità, consapevole però di come la fragilità dell’economia russa, l’anemia diffusa delle sue industrie e la necessità di un’iniezione di liquidità e investimenti in valuta estera fossero uno smacco tutto sovietico, valutando il tutto anche come un’ingerenza americana.
Con la sua salita al potere nel 1999 e il silenzioso colpo di stato del 2000 Putin cominciò ad agire nel modo che riteneva più consono per affrontare lo sbando diffuso interno ed esterno alle istituzioni russe.
Questo tipo di analisi guidò i successivi vent’anni, portandolo anche a silurare ex amici e alleati con l’obiettivo di centralizzare nuovamente il potere su di sé e sulla cerchia ristretta di oligarchi, membri dei Servizi Segreti e delle forze militari a lui vicini.
Individui come Alexander Litvinienko (ex agente antimafia del KGB prima e del FSB poi), Boris Nemtsov (ex vice primo ministro della Russia), Boris Berezovsky (ex membro della cerchia di oligarchi), Sergei Yushenkov, Alexei Navalny, lo stesso amico e mentore di Putin Anatoly Sobchak e molti altri sono probabilmente stati uccisi proprio su ordine del Presidente perché percepiti come pericolosi per l’ordine costituito.
Tuttavia, l’errore comune è credere che l’elemento primario ad aver guidato una simile politica di assassinio verso oppositori ed ex alleati sia stata la corruzione.
L’elemento primario fu ed è il cercare di riprendere e mantenere la rispettabilità istituzionale di un paese vasto come la Russia mantenendo al potere gli individui che la cerchia ristretta dell’ex KGB, dei Siloviki e di un limitato numero di oligarchi percepisce come affidabile.
L’intesa con oligarchi e mafia è un’eredità dell’Unione Sovietica emersa in modo importante poco dopo gli anni ’70, quando l’élite moscovita comprese di aver commesso un errore gravissimo inviando oppositori politici, criminali, militari e scienziati nei gulag dell’est del paese e nelle cosiddette “città chiuse” creando una società nella società.
Lì nacque una parte importante dell’impalcatura che gestisce la Russia contemporanea, con cui Putin è riuscito a trovare un compromesso riconducendo il paese ad un ordine pubblico abbastanza stabile, per quanto gli assassinii restino un evento quasi all’ordine del giorno con gli oligarchi divenuti l’equivalente di un sultano ottomano che opera spesso impunemente (ulteriormente quest’ultimo fenomeno tende a creare confusione tra gli omicidi politici e quelli personalistici con mandanti autonomi).
In tutto ciò l’intesa con la Russia sotterranea ha permesso a Putin, dopo aver preso il posto di un El’Cin convinto di aver trovato il suo erede, di trasformare il KGB in un’arma più chirurgica, specializzando l’ex servizio segreto in settori specifici sotto la supervisione di burocrati vecchi e nuovi. In particolare però gli ha permesso di fare lo stesso con le forze armate concedendogli maggior autonomia, in particolare dopo i disastri naturali del 1995-96 e del 2011, consapevole di come la supervisione dei militari da parte del KGB fosse un’inutile eredità dell’URSS.
Questo ha portato il Cremlino, dopo la disastrosa prima guerra di Cecenia, la più gestibile seconda guerra in Cecenia e quella in Georgia nel 2008, a reagire ai tumulti di Maidan (percepiti come una “rivoluzione colorata”, ovvero un cambio di schieramento verso l’Occidente facilitato dalla CIA e dall’MI6) con un’operazione in Donbass nel 2014, per così impantanare l’Ucraina in una guerra di attrito localizzata.
Questo evento, è importante precisarlo, colse Washington di sopresa vista la convinzione di molti che la Russia fosse in buona sostanza pacificata.
Addizionalmente Putin, perseguendo la “Dottrina Primakov”, puntava a creare e sdoganare una serie di tecnologie, nuove o già in lavorazione da tempo, per poi inserirle sul mercato come strumento che ribilanciasse gli equilibri militari mondiali.
Ovvero i russi hanno puntato con relativo successo a ridurre la distanza tra Occidente e Russia/mondo filorusso con tecnologie asimmetriche che rompessero gli schemi già consolidati di muovere guerra.
Tutto ciò ci porta al conflitto in Ucraina scoppiato definitivamente a fine febbraio 2022.
Forte di un’economia ancora indebolita ma più sana e produttiva, assieme a delle forze armate più competitive, Putin puntava ad espandere nuovamente l’influenza e la rispettabilità del paese.
Conseguentemente, dopo aver pacificato Lukaschenko in Bielorussia nel 2020 e consapevole di avere a Kiev un governo troppo filoccidentale, l’attuale Presidente della Federazione ha iniziato una guerra dalle tempistiche molto personali la cui vittoria doveva dimostrarsi rapida, rinvigorendo la reputazione della Russia e spalancando le porte ad un mondo “multipolare”.
Inutile dire che le cose non siano andate come si aspettava.