Requiescat in Soviet (parte seconda)

Gorbaciov: l’uomo ed il politico

Michail Gorbaciov era il figlio di un figlio della Seconda guerra mondiale. Quando il padre tornò dal fronte in un pezzo solo abbracciò il figlio, scalzo e vestito con indumenti tessuti a mano di cotone grezzo, e gli disse: “Abbiamo lottato fino ad esaurire la lotta. Così devi vivere”.

Per molti Gorbaciov non ha vissuto seguendo la richiesta del padre e, nel complicato triennio 1989-1991, ha rifiutato di combattere per mantenere unificato il territorio dell’Impero sotto la sua supervisione.

Per quanto sia effettivamente vero che la repressione nei confronti delle spinte indipendentiste degli stati satellite del Patto di Varsavia non sia mai arrivata (anche per mancanza di convinzione) lo stesso principio non si può applicare al resto del territorio dell’URSS.

Ed è proprio qui che si crea uno spaccato estremamente complesso di difficile descrizione. Gorbaciov era il figlio di una generazione troppo spaventata per poter odiare lo Stalinismo e, in linea con la sua storia personale, puntava a cercare di salvare l’Unione Sovietica rifiutando quelli che in buona sostanza riteneva essere metodi sbagliati.

Ovvero, diversamente dalla generazione del padre quella di Michail, non viveva più nel terrore totale dell’autorità e credeva di essere ancora in tempo per riplasmare il funzionamento dell’URSS senza usare lo stesso tipo di annichilimento che cominciava a diventare indigesto alla maggioranza della classe dirigente sovietica, incluso l’ex direttore del KGB e vero predecessore di Gorbaciov: Jurij Andropov.

In tutto questo l’aspetto più complicato era lo spettro, serpeggiante tra quelle che erano DUE classi dirigenti, di essere messi con le spalle al muro. Simili ma diverse, queste due classi dirigenti faticavano a capire come traghettare l’Impero sovietico oltre le riforme necessarie per sostenere l’economia interna e combattere la stagnazione delle istituzioni, ormai inaridite dalla mancanza di crescita economica a causa della repressione sui capitali e del controllo sulla produzione industriale.

Gorbaciov era parte della generazione più giovane e quindi di quella classe dirigente successiva e in continua collaborazione con la precedente di Andropov.

Entrambe erano stanche della violenza repressiva, ma quel che più le distingueva era il diffuso senso di malessere accompagnato da una cautela ormai immotivata per la prima e la volontà di gettare il cuore oltre l’ostacolo e riprendere più o meno da dove Crusciov aveva lasciato per la seconda.

Quel che avevano in comune era per l’appunto questo senso di essere vicini alla fine del loro tempo e di avere un disperato bisogno di spazio per respirare. Gli Stati Uniti erano consapevoli della situazione già da due decenni e finirono per sfruttare la situazione a loro vantaggio solo per poi rendersi conto di come gli eventi potessero sfuggire rapidamente fuori controllo.

I sovietici erano destinati a fallire, la domanda era solo di quando. L’esistenza della Russia oggi è probabilmente un attestato di come il fallimento non sia stato totale.

L’evoluzione degli eventi

Come già accennato, a partire dagli anni ’70 gli stati satellite russi videro moti insurrezionalisti sempre più estesi, causati principalmente dall’assenza di opportunità economiche e dal tentativo sempre più marcato di trovare un’intesa con l’occidente per un riavvicinamento.

Fondamentale per il coordinamento fu il sindacato sotterraneo polacco Solidarnosc che permise a Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria e Germania dell’est di collaborare in modo efficace rendendo la repressione un’opzione sempre meno percorribile.

In tutto questo Mosca aveva già compreso la necessità di trovare un’alternativa che facilitasse la ripresa economica così da poter sgonfiare il malcontento e impostare un nuovo equilibrio.

Per fare ciò sarebbe stato necessario avviare delle trattative, sul filo del rasoio, con gli Stati Uniti per una parziale apertura commerciale tramite quella che fu definita sotto Gorbaciov con il nome “Perestroika” ovvero “Ricostruzione/Ristrutturazione”. Allo stesso tempo il Cremlino tentò di recuperare credibilità istituzionale tramite l’iniziativa “Glasnost” ovvero “Dominio Pubblico/Trasparenza”.

Con la salita al potere di Gorbaciov dopo la morte di Andropov nel 1984 e il difficile processo di selezione di un successore dal 1980 al 1983, anno in cui era già abbastanza palese che Gorbaciov fosse quanto meno un papabile, le due iniziative (in precedenza al 1985 ancora in fase embrionale) entrarono in attività a pieno regime.

L’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl arrivò giusto in tempo per stroncare Glasnost. La Perestroika fu invece usata come carota dagli Stati Uniti per spingere un Cremlino già fortemente esitante a non reprimere le proteste del 1989 che culminarono nel crollo del Muro di Berlino.

Proprio in quest’ottica, corrispondenze e documenti dell’amministrazione Bush senior, la quale ereditò molte delle priorità di Reagan, sono illuminanti.

Come avevamo accennato gli USA altalenavano tra il voler sfruttare l’occasione di nuove proteste generalizzate per costringere Mosca a scegliere tra la repressione e la possibilità di commerciare, ed il timore di spingere la situazione ad un punto di non ritorno che li avrebbe costretti sul piede di guerra.

In buona sostanza il problema non si pose perché Gorbaciov e la classe dirigente sovietica finirono per accettare di non poter imporre per sempre la volontà del Cremlino sugli stati satellite del Patto di Varsavia, puntando piuttosto ad usare il lento allontanamento di questi territori come un tentativo di plasmare in extremis i rapporti commerciali post-unione.

Se infatti originariamente l’obiettivo della Perestroika era quello di facilitare un’intesa dell’URSS con gli Stati Uniti simile a quella stretta da Kissinger con la Cina, Chernobyl fece naufragare l’impalcatura portante dell’iniziativa economica mirata a recuperare la rispettabilità istituzionale: Glasnost.

A seguito del disastro nucleare emersero prepotentemente non soltanto le ansie delle popolazioni dei paesi membri del Patto di Varsavia, già ampiamente espresse, ma anche quelle di vari membri delle classi dirigenti, i quali raddoppiarono gli sforzi di collaborazione con Solidarnosc ed altri tipi di organizzazioni sotterranee (incluse le mafie a seconda della nazione presa in considerazione).

La rinnovata spinta per un nuovo equilibrio, in realtà, fu allo stesso tempo un catalizzatore della disgregazione dell’URSS e un pericoloso ingrediente deflagrante che si tradusse in due anni di caos istituzionale generalizzato e quasi un decennio di negoziazioni, dibattiti e consultazioni sottobanco tra Russia, Stati Uniti e paesi NATO (Germania, Francia e Regno Unito in testa).

In tutto questo Mosca vide la rapida istituzione di elezioni libere nella maggioranza dei territori dell’URSS, anche dove teoricamente non avrebbero dovuto avere luogo, ma tale fu la forza delle spinte centrifughe spesso tutt’altro che facilitate dagli Stati Uniti.

Oltre all’improvvisa emersione di spinte indipendentiste rimaste sopite per decenni in territori come il Caucaso, i Balcani, il Baltico, l’Eurasia Centrale e l’Europa dell’est, una parte ristretta della vecchia generazione di dirigenti vicini ad Andropov tentò un fallimentare colpo di stato nell’Agosto del 1991 ai danni di Gorbaciov e d’accordo con la maggioranza dei paesi del Caucaso e dell’Eurasia centrale.

Questo distrusse definitivamente la credibilità di Gorbaciov e del Partito Comunista russo portando alla vittoria dei liberali di San Pietroburgo e di Boris El’cin alle elezioni del 1991. Ebbe inoltre l’ulteriore effetto di spingere le classi dirigenti del Patto di Varsavia a non voler nemmeno sentir parlare di rimanere vicini all’URSS, per timore di vedere i carri armati attraversare nuovamente le loro capitali.

Con il definitivo crollo sconnesso dell’Unione Sovietica nel 1991, le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) si staccarono dalla Russia. Questo evento in particolare, così come i timidi tentativi di iniziale distacco dell’Ucraina, furono combattuti a spada tratta da Gorbaciov già dal 1989/1990. Nel caso dell’Ucraina, Gorbaciov ebbe in realtà successo ponendo le basi per un rapporto di cooperazione (ed in alcuni casi vassallaggio) durato fino al 2013 con la “Rivoluzione di Maidan”.

La situazione delle repubbliche baltiche (mai facenti parte delle discussioni della Perestroika o di un possibile disegno riguardo l’assecondamento di spinte indipendentiste) fu invece complicata dal probabile coinvolgimento della Svezia/Finlandia e dal ridirezionamento delle risorse militari per l’attuazione del fallito colpo di stato a Mosca, che finì per vanificare definitivamente il blocco economico imposto sull’apripista all’indipendenza delle tre: la Lituania.

La successiva creazione del CSI nel 1991 (Comunità degli Stati Indipendenti, 9 dei 15 stati dell’URSS vi partecipavano) e del CST (nel 1992), come espressione delle forze armate degli stati membro del CSI, fu un flop più per il caos interno alla Russia che per assenza di buona pianificazione.

Infatti, il fulcro concettuale e burocratico di organismi internazionali come il CST, trasformatosi nel CSTO nel 2002, nacque sotto la supervisione di Gorbaciov per garantire un equivalente della NATO a quegli stati percepiti come centrali nell’architettura di sicurezza della Russia.

Divenne poi qualcosa di più, traducendosi in un organismo di controllo e cooperazione tra eserciti, con l’obiettivo di reprimere spinte centrifughe ANCHE in modo diretto. Ad oggi, come è stato palese con la repressione delle proteste in Kazakstan ad inizio 2022, questa parte ufficiosa del mandato del CSTO è fermamente presente.

In tutto questo, la letteratura attuale sul crollo dell’URSS è precisa riguardo al tipo di fragilità che gli USA sfruttarono per portare l’intera classe dirigente sovietica a preferire l’inazione rispetto alla repressione nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia.

È proprio l’analisi dei documenti statunitensi a spingere per l’esclusione di un fallimento intrinseco del CSTO come organismo di controllo.

Ulteriormente, nel corso degli anni alcune di queste nazioni si sono poi allontanate, attratte verso la sfera economica americana, grazie alla centralità dei rapporti commerciali tra Cina e Stati Uniti per la Globalizzazione (ribattezzata in molti ambienti con “Chimerica”) e per via della posizione della Russia, relegata ad economia secondaria fornitrice di materie prime e di beni dell’industria “pesante”.

Tuttavia, la maggioranza degli stati facenti parte del CSTO rimane in buona sostanza ben incastonata all’interno delle logiche di politica estera russa.

Domenica 23 Novembre verrà pubblicata l’ultima parte sulla Russia contemporanea.