Il difficile gioco del Kazakistan tra Europa e Russia

Paese indipendente dal 1991, è stata l’ultima repubblica dell’ex Unione Sovietica a dichiarare l’indipendenza da Mosca. Di fatto è stato una dittatura per quasi trent’anni sotto la guida del leader autoritario (dittatore..?) Nazarbaev, a cui è succeduto nel 2019 il presidente Tokayev (rieletto recentemente con una maggioranza schiacciante dell’81,3%).

Questo paese centroasiatico occupa un ruolo fondamentale nello scacchiere locale e non, principalmente grazie alla sua abbondanza di risorse. Nano demografico ma gigantesco esportatore di materie prime energetiche al 2019 è il 12° esportatore per volume di gas naturale al mondo, 9° per carbone e petrolio greggio (pari a 34 miliardi di $ esportati). I principali partner economici sono la Cina, l’Italia, la Russia e l’Olanda. 

Il paese possiede, secondo delle stime che probabilmente andrebbero aggiornate, circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica ed è il secondo produttore di petrolio nella regione dopo la Russia. 

Questa abbondanza di risorse energetiche accompagnata dalla politica di privatizzazione, liberalizzazione dei prezzi ed apertura agli investimenti dall’estero (il terzo istituto di credito del Kazakistan, l’Astana Bank è stata acquistata nel 2007 da Unicredit), hanno permesso al paese di mettere a frutto questa ricchezza e di emergere come fondamentale hub di trasporto dell’energia nelle regioni centroasiatiche ed est-europee. Questo è stato possibile grazie alla posizione geografica che vede il paese proprio a cavallo tra l’Asia centromeridionale e l’Europa centrorientale, collegate da una intricata rete stradale, ferroviaria e di infrastrutture energetiche. Tutte infrastrutture che hanno visto l’interesse e l’investimento dei cinesi per il loro progetto della nuova via della seta. 

Il petrolio prodotto dal Kazakistan viene esportato per l’80% tramite una rete di oleodotti che, come si può notare, per buona parte passano su territorio russo e sboccano sul Mar Nero. È quindi ovvio ed evidente il fortissimo legame (in buona parte storico) che intercorre tra questi due stati, per cui viene da pensare che l’apertura che il Kazakistan sta mostrando nei confronti dell’Occidente è opportunistica e di facciata e mira principalmente ad attrarre investimenti stranieri. Probabilmente tramite il Kazakistan la Russia può facilmente aggirare le sanzioni, in particolare riguardanti l’esportazione di petrolio, dato che i terminal sono molto vicini. Interessante da notare è che a luglio la Russia ha bloccato l’oleodotto principale che il Kazakistan usa per esportare petrolio verso l’unione europea, Il Caspian Pipeline Consortium (CPC), da cui passano i due terzi del petrolio che il paese esporta.

(Carta di Laura Canali)

Detto questo è chiaro che il governo del paese fa perno su queste ingenti risorse (che in questo momento fanno particolarmente gola) per attirare ingenti investimenti esteri e per espandere la propria influenza a livello regionale. In parte forse ispirandosi a quanto fatto da Erdogan in Turchia e approfittando del vuoto lasciato dall’indebolimento della vicina Russia.

Al centro dell’attenzione…

Il Kazakistan è tornato quest’anno sotto ai riflettori internazionali in varie occasioni. Recentemente per la rielezione di Kassym-Jomart Tokayev, per il rapporto quasi dialettico tra Kazakistan, Russia ed Unione Europea e per le violenti proteste che hanno scosso il paese nel Gennaio 2022. 

Per chiarezza di questa breve analisi ripercorriamo rapidamente gli eventi occorsi durante queste proteste.

Il 2 gennaio 2022 una fetta consistente di kazaki è scesa in piazza per protestare contro l’inflazione, l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, delle materie prime, contro le difficoltà economiche inasprite dalla pandemia, i redditi bassi e la disuguaglianza economica. Manifestazioni si sono svolte contro il regime di repressione dei diritti fondamentali, di controllo e di censura di uno stato che è ormai considerato tra i più autoritari dell’Asia Centrale. Inizialmente pacifiche, le proteste sono degenerate rapidamente e culminate in incendi, blocco degli aeroporti ed assalto ad alcune delle sedi di governo. Queste manifestazioni sono state significative perché hanno messo a nudo le debolezze di un paese che era stato a lungo considerato un pilastro di stabilità economica e politica nella regione.

Il sistema clientelistico, corrotto ed estremamente centralizzato ereditato dopo i 30 anni di governo di Nazarbayev da Tokayev, il quale aveva promesso riforme economiche e maggiori libertà politiche, ha portato la popolazione esasperata dalla pandemia a scendere in piazza ed a scontrarsi con le forze dell’ordine. Queste inizialmente sopraffatte hanno dovuto abbandonare alcune zone sensibili tra cui edifici governativi (la foto in evidenza mostra l’edificio municipale di Almaty in fiamme). All’interno di questo quadro si spiega la richiesta di aiuto all’OTSC (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), alleanza militare creata nel 1992 da ex paesi sovietici, in particolare 6 delle nazioni appartenenti alla CSI (Comunità degli stati indipendenti). I paesi in questione sono Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan.

La “collective rapid reaction force”, costituita principalmente da soldati russi (circa 2500), è intervenuta in soccorso del Kazakistan per una missione di peacekeeping, volta a proteggere le installazioni militari e statali del Kazakistan (compresi gli aeroporti, dato che nei primi giorni un gruppetto di manifestanti ha bloccato l’aeroporto di Almaty). Questo è stato possibile appellandosi all’articolo 4 del Trattato dell’organizzazione, che prevede che gli stati aderenti al trattato se aggrediti da un altro stato o gruppo di stati forniranno l’assistenza necessaria, anche militare per difendersi (in conformità con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riguardante il diritto alla difesa collettiva). 

Risulta subito evidente come il Kazakistan, non essendo stato attaccato da nessuno stato, ha dovuto mettere in piedi una narrativa incentrata sulla presunta infiltrazione e guida delle manifestazioni da parte di stati esteri tramite proxy, arrivando perfino a parlare di tentato colpo di stato. 

Le manifestazioni con tratti rivoltosi sono state sedate nel sangue, con l’ordine di sparare per uccidere, nel giro di un paio di settimane. Il bilancio è stato pesante. Più di 200 morti (queste sono le morti accertate, quindi sono stime conservative), quasi 3000 feriti e 12.000 arresti. Interessante da notare la rigida gerarchia che caratterizza il governo di Tokayev, che in un discorso alla nazione del 7 gennaio ha detto apertamente “è stato mio ordine sparare […] sarebbe un’idiozia provare a dialogare con terroristi e criminali”.

A seguito delle proteste comunque Tokayev ha dovuto inscenare una svolta, probabilmente più simbolica che non, dedicandosi all’apparente epurazione della vecchia casta di governanti che stava al potere da quasi 30 anni e concedendo, per calmare gli animi, una riduzione dei prezzi di gas e petrolio. 

Ha preso formalmente le distanze dal governo di Nazarbayev destituendo tutti i membri del vecchio governo, nominato nel 2019 dall’ex presidente prima delle dimissioni (alcuni membri del governo sono stati arrestati, in particolare figure di spicco nelle forze di sicurezza). All’ex capo di stato sono stati inoltre tolti tramite referendum costituzionale nel giugno 2022 vari privilegi che Nazarbayev ancora manteneva, tra cui il titolo di “Guida della Nazione”. In una precedente manovra (a gennaio) Tokayev, per poter richiedere l’intervento del CSI, aveva assunto il controllo del “Consiglio di Sicurezza Nazionale” che era ancora presieduto da Nazarbayev.

Di fatto Tokayev ha incaricato nel nuovo governo tutti membri delle élite, che in qualche modo avevano contatti o ruoli momentaneamente di secondo piano nel precedente governo. Come nel caso del primo ministro Alikhan Smailov che era stato primo vice ministro nel precedente governo, o di magnati del petrodollaro finiti a presiedere ministeri vari. In poche parole non si è trattato di un vero cambiamento ma semplicemente di uno spostamento e redistribuzione di ruoli di potere sempre all’interno del circolo di magnati dell’energia a persone non direttamente esposte in precedenti incarichi ed apparentemente pulite. L’élite governativa precedentemente al potere tramite membri di famiglia ed entourage ha mantenuto quindi de facto la sua influenza economica e politica sul paese.

L’equilibrio kazako tra Europa e Russia

Questa permanenza di fatto dell’élite del paese al governo ci riporta al punto delle relazioni tra Kazakistan e Russia e tra Kazakistan ed Europa. Questa recente riapertura del Kazakistan nei confronti dell’Europa ed apparente presa di distanza dalla Russia è in qualche modo sospetta. Significativo è il fatto che Tokayev effettuerà la sua prima visita ufficiale come rieletto presidente proprio in Russia incontrando Putin, per poi dirigersi in Francia. Rielezione senza un’opposizione credibile, quasi un plebiscito, che fa del Kazakistan, come molti dei paesi centroasiatici, più un regime autoritario che non una democrazia. 

Sottolineiamo nuovamente l’importanza che un paese come il Kazakistan (o l’Azerbaijan) ha per le nazioni europee disperatamente alla ricerca di alternative alle risorse russe. In questo il Kazakistan si mostra quasi come una miniera a cielo aperto che non aspetta altro che di essere sfruttata. Probabilmente è in quest’ottica che si spiegano le avances kazake ai mercati europei. Questa è sicuramente un’occasione d’oro per rilanciare l’economia di un paese che, pur ricco di risorse, vede vivere una buona fetta delle persone al di sotto della soglia di povertà ed un nucleo ristretto di persone estremamente ricche. Una profonda spaccatura sociale nella quale Tokayev deve giocare ed ha giocato, un’attenta partita diplomatica per riconquistare la popolarità persa in seguito alle proteste, senza allo stesso tempo alienarsi la simpatia della élite che l’ha investito del suo ruolo e che gli permette di stare al potere fintantoché li lascia liberi di agire. Possiamo dire che la strategia ha funzionato visti i risultati alle recenti elezioni e l’impressione è che questo uomo carismatico possa avere piani ambiziosi per il paese.

Tutto questo spinge probabilmente Tokayev a dare sempre più spazio alle grosse aziende straniere i cui investimenti e finanziamenti sono fondamentali, tra cui partner privati molto importanti come l’Italiana ENI che estrae centinaia di migliaia di barili di greggio dal sottosuolo kazako.

Ma forse dobbiamo essere più (ingenuamente?) ottimisti e dare una possibilità a questo paese che plausibilmente cerca in qualche modo di abbandonare una nave che va a picco e ha quindi disperatamente bisogno di un appiglio che un paese come la Cina in questo momento non può dare. 

Il Kazakistan riceve infatti il 60% degli investimenti diretti dall’Unione Europea. E molti segni sembrano indicare che questi numeri sono destinati ad aumentare ulteriormente. Indicativi al riguardo sono la visita ad Ottobre del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel in Kazakistan e la firma da parte di Ursula von der Leyen di un memorandum d’intesa con Il Kazakistan durante la Cop27 in Egitto per cercare di diversificare gli approvvigionamenti necessari per il REPowerEU Plan. È dunque innegabile il peso concreto e condizionante che questi massicci investimenti hanno sulla politica estera Kazaka. Basti pensare all’azienda tedesca Svevind Energy Gruop che ha recentemente siglato con il governo kazako un accordo da 20 miliardi per lo sviluppo di un impianto di produzione di idrogeno da fonti rinnovabili. Questi sono numeri difficilmente replicabili da altri paesi attivi nella regione.

Importante da notare è che esiste effettivamente un solido canale di dialogo, l’Unione Europea ed il Kazakistan si siedono infatti costantemente ad un tavolo tecnico di confronto in occasione dell’annuale (ormai diciannovesima) sessione del consiglio di cooperazione tra Unione Europea e Kazakistan. Inoltre il Kazakistan (come molti altri paesi -stan) siede all’interno dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), di cui ha avuto la presidenza nel 2010.

Tutto questo sembra in qualche modo relegare a ruolo di quasi spettatore la Russia che si ritrova una sorta di opportunistica serpe in seno. Ma questa apparenza forse inganna. Probabilmente come precedentemente detto la comprensione fra i due paesi è maggiore di quanto sembri e passa per modi e mezzi che non sempre vediamo. Basti pensare al fatto che il Kazakistan ospita una importante minorità etnica russa (circa il 20% della popolazione) e che come già sottolineato, la Russia tiene di fatto in scacco il Kazakistan avendo il massimo controllo sugli oleodotti che a questo paese servono per esportare le sue risorse. Serve quindi il beneplacito di Mosca perché il Kazakistan possa esportare la benché minima cosa e questo sicuramente significa che il Kazakistan deve pagare un prezzo che a noi non è noto. 

Come piccola nota conclusiva vogliamo far notare come la disperata richiesta d’aiuto da parte dell’Armenia ai membri del CSI sia stata tranquillamente ignorata. Questo mette in evidenza la debolezza dell’OTSC che fin dalla sua formazione negli anni 90 non era mai intervenuta militarmente, anche quando alcuni membri ne avevano richiesto l’intervento, mostrando di fatto un’importanza simbolica più che operativa dell’organizzazione. La prima volta è stata in Kazakistan e probabilmente sarà l’ultima, soprattutto se la situazione per la Russia continua così. Questo perché il ruolo di potenza regionale e security provider della Russia è stato messo in discussione dalla fallita operazione speciale in Ucraina, che ormai si è trasformata in una logorante guerra di attrito. L’orso si è dimostrato essere in realtà più una iena spelacchiata.