Dopo il Venezuela anche l’Arabia Saudita si tira (subdolamente) indietro
La Russia si trova infatti costretta a cercare di aggirare le sanzioni per esportare il suo oro nero ma, con l’assenza di compagnie assicurative disposte a coprire possibili incidenti navali ed il Dipartimento del Commercio USA perennemente alla ricerca di falle nella rete di misure punitive, fatica a muoversi. Poca importanza ha il nuovo prezzo competitivo di Mosca di 35$ al barile nel momento in cui gli americani minacciano di non commerciare più con il paese che compra il bene. Non è tantomeno possibile trasportare il petrolio in altro modo, vista l’assenza di oleodotti con portata adeguata a garantire il flusso accordato verso i due nuovi acquirenti di maggioranza: Cina e India.
Tutto ciò lascia un pesantissimo vuoto all’interno del mercato reale del petrolio e finisce per riflettersi anche sui mercati finanziari che, dopo il 1970, hanno occasionalmente trasformato l’oro nero in un soggetto di speculazione, specialmente in mancanza di offerta.
A poco sono serviti i tentativi della Casa Bianca di reintegrare la produzione di Venezuela e Iran dopo il divieto sullo sviluppo di nuovi pozzi a base scistosa spesso localizzati in Texas e Canada e sempre più competitivi.
Questo sia perché cercare di riavviare la produzione venezuelana completamente è impossibile a causa dell’inflazione e della fuga di cervelli dal paese (gli impianti di estrazione e raffinazione sono fuori uso a causa dell’assenza di operai specializzati e componenti di ricambio, è quindi impossibile farli ripartire senza aiuti esterni) sia perché l’Iran punta ad usare la sua flotta di contrabbando per trasportare combustibile verso possibili acquirenti al fine di ottenere valuta estera (dollari in primis) senza integrare i flussi nel mercato.
L’improvviso cambio di posizione dell’Arabia Saudita va quindi contestualizzato ricordando il rallentamento dell’economia cinese (a cui Riad fornisce grosse quantità di carburante raffinato) e l’improvvisa retromarcia venezuelana sull’esportazione di carburante verso Spagna e Italia (che lascia nuovamente scoperta la rete commerciale e marittima europea).
Con il fallimento della politica energetica dell’amministrazione Biden, il tirarsi indietro di Iran e Venezuela, l’atteggiamento approfittatore dell’Arabia Saudita che punta a vendere a prezzi elevati il suo greggio (dopo un accordo disatteso con gli Stati Uniti) e la sua limitata capacità di raffinazione, si prospetta una già anticipata disfunzionalità dei mercati del petrolio.
Questa potrebbe costringere gli USA ad interrompere le esportazioni e rimuovere il divieto sull’estrazione di petrolio scistoso pur di stabilizzare i prezzi interni. In prospettiva, la vendita del surplus produttivo americano riguarderebbe l’UE e gli alleati del sud-est asiatico (Giappone, Sud Corea, Indonesia, etc.), ma richiederebbe un paio di anni prima di essere garantita al 100%.
Tutto ciò implica una volatilità marcata nel prezzo dell’oro nero, portandolo probabilmente a schizzare ben oltre il massimo storico di 140$ al barile, senza una reale prospettiva di stabilizzazione sui mercati globali almeno per i prossimi 5 anni. L’assenza di impianti di raffinazione con produzione adeguata alla domanda e la difficoltà a trasportare il prodotto saranno elementi centrali.
In un simile contesto di scarsità, l’Europa riuscirà a garantire quantitativi basici di carburante a prezzi inizialmente proibitivi e poi gradualmente più gestibili, ma il resto del mondo sprofonderà in un caos non indifferente.
Il crollo della globalizzazione si sta rivelando sempre più erratico.