5 febbraio: Sant’Agata, vergine e martire

Oggi si commemora la patrona di Catania, una giovane fanciulla martirizzata perché non volle ripudiare la sua fede

Memoria di sant’Agata, vergine e martire, che a Catania, ancora fanciulla, nell’imperversare della persecuzione conservò nel martirio illibato il corpo e integra la fede, offrendo la sua testimonianza per Cristo Signore. (dal Martirologio)

Agata nacque a San Giovanni Galermo, un quartiere di Catania, da una famiglia ricca e nobile; alcuni storici fanno risalire la sua data di nascita all’8 settembre 235, altri all’anno 229. Secondo la tradizione, sant’Agata si consacrò a Dio all’età di 15 anni circa.

Al momento del suo martirio serviva la comunità cristiana come diaconessa, come documentato dalla tradizione orale catanese, dai documenti scritti narranti il suo martirio e dalle raffigurazioni iconografiche ravennati, con particolare riferimento alla tunica bianca e al pallio rosso.

Possiamo quindi a ragione descriverla come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana: una diaconessa che aveva il compito, fra gli altri, di istruire i catechesi e preparare i più giovani al battesimo alla prima comunione e alla cresima.

Inoltre, da un punto di vista giuridico, Agata aveva il titolo di proprietaria di poderi, cioè di beni immobili. Per avere questo titolo le leggi romane pretendevano il raggiungimento del ventunesimo anno di età.

Rimanendo sempre in tema giuridico, durante il processo cui Agata fu sottoposta, fu messa in atto la Lex Laetoria, che proteggeva i giovani d’età compresa tra i 20 e i 25 anni, soprattutto giovani donne, dando a chiunque la possibilità di contrapporre una actio polularis contro gli abusi di potere commessi dall’inquisitore: prova ne sia che il processo di Agata si chiuse con un’insurrezione popolare contro Quinziano, che dovette fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla catanese.

Nell’anno a cavallo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania, anche con l’intento di far rispettare l’editto dell’imperatore Decio, che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede, si invaghì della giovinetta e, saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei dell’impero. Più realisticamente si può immaginare un quadro più complesso: dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, potrebbe esserci stato l’intento della confisca di tutti i loro beni.

Al rifiuto deciso di Agata, il proconsole la affidò per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia e delle sue figlie, persone molto corrotte. È probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere o di Cerere e pertanto dedita alla prostituzione sacra.

Il fine di tale affidamento era la corruzione morale di Agata, attraverso una continua pressione psicologica, fatta di allettamenti e minacce, per sottometterla alle voglie di Quinziano, arrivando a tentare di trascinare la giovane catanese nei ritrovi dionisiaci e relative orge, allora molto diffuse a Catania.

Ma Agata, in quei giorni, a questi attacchi perversi che le venivano sferrati, contrappose l’assoluta fede in Dio; e pertanto uscì da quella lotta vittoriosa e sicuramente più forte di prima, tanto da scoraggiare le sue stesse tentatrici, le quali rinunciarono all’impegno assuntosi, riconsegnando Agata a Quinziano.

Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i principi, Quinziano diede avvio a un processo e convocò Agata al palazzo pretorio. Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.

Breve fu il passaggio dal processo al carcere e alle violenze con l’intento di piegare la giovinetta. Inizialmente venne fustigata e sottoposta al violento strappo di una mammella. La tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite. Infine venne sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. La notte seguente l’ultima violenza, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.

Le reliquie della santa furono trafugate a Costantinopoli nel 1040 dal generale bizantino Giorgio Maniace. Nel 1126 due soldati dell’esercito bizantino, di nome Gilberto e Goselino (uno di origine francese e l’altro calabrese), le rapirono per consegnarle al vescovo di Catania Maurizio nel Castello di Aci, odierna Aci Castello.

Il 17 agosto 1126, le reliquie rientrarono nel duomo di Catania. Questi resti sono oggi conservati in parte all’interno del prezioso busto in argento (parte del cranio, del torace e alcuni organi interni) e in parte dentro a reliquiari posti in un grande scrigno, anch’esso d’argento (braccia e mani, femori, gambe e piedi, la mammella e il velo).

Altre reliquie della santa, come ad esempio piccoli frammenti di velo e singole ossa, sono custodite in chiese e monasteri di varie città italiane e estere.

Durante il martirio con i carboni ardenti si narra che una donna coprì con il suo velo la Santa: si tratta del cosiddetto velo di Sant’Agata. È di colore rosso cupo e, nel corso dei secoli, venne più volte portato in processione come estremo rimedio per fermare la lava dell’Etna: questa una delle leggende. Nei fatti il cosiddetto “velo” di colore rosso faceva parte del vestimento con cui Agata si presentò al giudizio, essendo questo, indossato su una tunica bianca, l’abito delle diaconesse consacrate a Dio. Un’altra leggenda vuole che il velo fosse bianco e diventasse rosso al contatto col fuoco della brace.

Molti sono i miracoli attribuiti a sant’Agata nel corso dei secoli: appena un anno dopo la sua morte, nel 252, Catania venne colpita da una grave eruzione dell’Etna. L’eruzione ebbe inizio il 1º febbraio e aveva già distrutto alcuni villaggi alla periferia di Catania. Il popolo andò in cattedrale e preso il velo di sant’Agata lo portò in processione nei pressi della colata. Questa, secondo la tradizione, si arrestò dopo breve tempo: era il 5 febbraio, giorno del martirio della vergine catanese.

Il velo della santa lungo circa 4 metri era bianco secondo le usanze dell’epoca, ma avvicinato alla lava rovente divenne di un rosso cupo. Esso si trova in un reliquiario conservato nello scrigno d’argento contenente tutte le reliquie della santa.

Santa Lucia da Siracusa, quasi coetanea di Sant’Agata, andò con la madre gravemente ammalata a pregare sulla tomba di Agata per implorarne la guarigione. Narra la leggenda che Lucia, mentre pregava, ebbe una visione nella quale sant’Agata le disse «perché sei venuta qui quando ciò che mi chiedi puòi farlo anche tu? Così come Catania è protetta da me, la tua Siracusa lo sarà da te.» La madre di Lucia guarì e Lucia dopo poco venne martirizzata.

Nel 1169 Catania fu scossa da un disastroso terremoto, alle ore 21 del 4 febbraio, quando molti cittadini catanesi erano radunati nella cattedrale per pregare in onore della santa. Nel crollo della cattedrale morirono il vescovo Aiello e 44 monaci, oltre a un numero imprecisato di fedeli. Nei giorni seguenti altre scosse di terremoto e maremoto imperversarono sulla città. La tradizione vuole che il terremoto sia cessato soltanto quando i cittadini presero il velo della santa e lo portarono in processione.

Altre catastrofi naturali, terremoti, eruzioni dell’Etna e pestilenze, avvennero negli anni 1231, 1357, 1444, 1575, 1669, 1693, 1743 e 1886. La risoluzione di ognuna di esse si attribuisce all’intercessione della santa.
Per più di quindici volte, dal 252 al 1886, Catania è stata salvata dalla distruzione della lava. Ed è poi stata preservata nel 535 dagli Ostrogoti, nel 1231 dall’ira di Federico Il, nel 1575 e nel 1743 dalla peste.

Il 25 luglio 1127 i Mori presero d’assedio le coste siciliane. Dove approdavano erano stragi, massacri e rapine. Quando stavano per assalire la costa catanese, gli abitanti della città ricorsero all’intercessione di sant’Agata e la grazia non tardò: Catania fu risparmiata da quel flagello.

Un altro episodio ha dimostrato ancora una volta che la città ai piedi dell’Etna ha sempre goduto della vigile protezione di sant’Agata: nel 1231 Federico II di Svevia era giunto in Sicilia per assoggettarla. Molte città si ammutinarono e Catania fu tra queste. Federico II furente e ne ordinò la distruzione, ma i catanesi ottennero che, prima dell’esecuzione di quello sterminio, in cattedrale venisse celebrata l’ultima messa, alla quale presenziò lo stesso Federico II. Fu durante quella funzione che il re svevo, sulle pagine del suo breviario, lesse una frase, comparsa miracolosamente, che gli suonò come un pericoloso avvertimento: «Non offendere la patria di Agata perché ella vendica le ingiurie».

Immediatamente abbandonò il progetto di distruzione, revocò l’editto e si accontentò soltanto che il popolo passasse sotto due spade incrociate, pendenti da un arco eretto in mezzo alla città. A Federico bastò un atto di sottomissione e lasciò incolumi i cittadini e Catania, salvata per l’intercessione della Madonna delle Grazie e di sant’Agata.

La città ricorda questo evento con un bassorilievo di marmo che si trova oggi all’ingresso del Palazzo comunale e raffigura Agata, seduta su un trono come una vera regina, che calpesta il volto barbuto di Federico II di Svevia.

Nel 1169 un terremoto fece da preludio a una tremenda eruzione. Un fiume di lava, scorrendo per i pendii dell’Etna e allargandosi per le campagne, distruggeva ogni cosa al suo passale e avanzava inarrestabile verso la città. Ma, come era avvenuto un anno dopo la morte di sant’Agata, una processione col sacro velo bloccò il fiume di lava. Miracoli simili i catanesi li ottennero anche nel 1239, 1381, 1408, 1444, 1536, 1567 e nel 1635.

Ma l’eruzione più disastrosa avvenne nel 1669: una serie di bocche si aprirono lungo i fianchi del vulcano, che eruttò lava e lapilli per sessantotto giorni. La lava distrusse molti centri abitati e giunse fino in città, circondando il fossato del Castello Ursino. Nella sacrestia della cattedrale un affresco, realizzato dieci anni dopo l’eruzione da chi aveva vissuto in prima persona quei tragici momenti, descrive le scene quasi apocalittiche di quella eruzione.

Quando il magma era giunto a una distanza di trecento metri dal duomo, miracolosamente scansò i luoghi in cui sant’Agata era stata imprigionata, aveva subito il martirio e dove poi era stata sepolta, per andare a scaricarsi in mare e proseguire per più di tre chilometri. Sembrò chiara la volontà della santa catanese di salvare i luoghi che appartenevano alla sua storia e al suo culto.

A quella terribile eruzione è legato anche un altro evento prodigioso: un affresco, che raffigurava sant’Agata in carcere e che si trovava in un’edicola sulle mura della città, fu trasportato intatto dal fiume di lava per centinaia di metri. Ora quel dipinto si trova sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Agata alle Sciare, a Catania.

Dono di ringraziamento per aver salvato la città dalla distruzione totale è la grande lampada votiva d’argento che si trova al centro della cappella di sant’Agata nella cattedrale e che Carlo Il di Spagna volle offrire alla patrona della città.

Nel 1693 un violento terremoto fece tremare Catania. Ci furono diciottomila morti. Nessuno dei novemila superstiti dopo la catastrofe voleva più ritornare in città. Catania sarebbe diventata una città fantasma se un delegato del vescovo, in processione con le reliquie di sant’Agata, non avesse supplicato il popolo a rimanere e a ricostruire la città.

Nel 1886 una bocca eruttiva si era aperta a Nicolosi, un centro abitato alle pendici dell’Etna. Il beato cardinale Dusmet, il 24 maggio, portò in processione il velo di sant’Agata e, benché la processione si fosse fermata in un tratto in discesa, il magma lavico si arrestò immediatamente. In memoria dello straordinario miracolo, in quel punto sorge ora un piccolo altare.

In più occasioni sant’Agata pose benigna la sua mano sulla città anche a protezione dalle epidemie. Nel 1576, quando la peste cominciò a diffondersi poco lontano da Catania, il senato pensò di ricorrere all’intercessione della patrona. Le reliquie furono porta in processione lungo le vie della città e, una volta giunte accanto agli ospedali dove erano ricoverati gli appestati, essi guarirono e nessuno fu più contagiato.

I catanesi ottennero un altro segno di protezione nel 1743, quando una seconda ondata di peste stava per diffondersi da Messina anche a Catania. Il miracolo ci fu anche stavolta: le reliquie furono portate in processione e la peste cessò. In ricordo di questo prodigio fu eretta nell’attuale piazza dei Martiri, una colonna romana (proveniente dal Teatro) sormontata da una effigie di sant’Agata che schiaccia la testa di un mostro, simbolo della peste.

Fra tutte le città italiane di cui sant’Agata è compatrona, Gallipoli e Galatina, in Puglia, sono coinvolte in una singolare contesa che vede come protagonista una reliquia di sant’Agata, la mammella. Una leggenda diffusa in Puglia spiegherebbe con un miracolo la presenza della reliquia a Gallipoli. Si dice che l’8 agosto 1126 sant’Agata apparve in sogno a una donna e la avvertì che il suo bambino stringeva qualcosa tra le labbra. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca. Tentò a lungo: poi, in preda alla disperazione, si rivolse al vescovo.

Il prelato recitò una litania invocando tutti i santi e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la bocca. Da essa venne fuori una mammella, evidentemente quella di sant’Agata. La reliquia rimase a Gallipoli, nella basilica dedicata alla santa, dal 1126 al 1389, quando il principe Del Balzo Orsini la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto, nella quale è ancora oggi custodita la reliquia, presso un convento di frati francescani.

Dal 3 al 5 febbraio, Catania dedica alla Santa una grande festa, misto di fede e di folklore. Secondo la tradizione alla notizia del rientro delle reliquie della santa il vescovo uscì in processione per la città a piedi scalzi, con le vesti da notte seguito dal clero, dai nobili e dal popolo. Controversa è l’origine del tradizionale abito che i devoti indossano nei giorni dei festeggiamenti: camici e guanti bianchi con in testa una papalina nera.

Una radicata leggenda popolare vuole siano legati al fatto che, i cittadini catanesi, svegliati in piena notte dal suono delle campane al rientro delle reliquie in città, si riversarono nelle strade in camicia da notte; la leggenda risulta essere priva di fondamento poiché l’uso della camicia da notte risale al 1300 mentre la traslazione delle reliquie avvenne nel 1126.

Un’altra leggenda afferma che l’abito bianco sia legato al precedente culto della dea Iside. Ma la tradizione storica più affermata indica che l’abito votivo altro non è che un saio penitenziale o cilicio, si afferma inoltre, che sia una tunica, bianca per purezza, indossata il 17 agosto, quando due soldati riportarono le reliquie a Catania da Costantinopoli.

Altri elementi caratteristici della festa sono il fercolo d’argento con i resti della Santa. Legati al veicolo due cordoni di oltre 100 metri a cui si aggrappano centinaia di “Devoti” (con il Sacco agatino – tunica bianca stretta da un cordone -, cuffia nera, fazzoletto e guanti bianchi) che fino al 6 febbraio tirano instancabilmente il carro. La vara viene portata in processione, insieme a undici candelore o cannalori, appartenenti ciascuna alle corporazioni degli artigiani cittadini. Tutto avviene fra ali di folla che agita bianchi fazzoletti e grida Cittadini, cittadini, semu tutti devoti tutti. È considerata tra le tre principali feste cattoliche a livello mondiale per affluenza.

Altri Santi che la Chiesa commemora il 5 febbraio

Santi Martiri del Ponto – Nel Ponto, commemorazione di molti santi martiri nella persecuzione dell’imperatore Massimiano, i quali, alcuni cosparsi di piombo fuso, altri torturati con canne appuntite conficcate nelle unghie e straziati da vari e ripetuti supplizi, con la loro gloriosa passione ottennero dal Signore la palma e la corona. (dal Martirologio)

Sant’Avito, vescovo – A Vienne Nella Gallia lugdunense, ora in Francia, sant’Avito, vescovo, per la cui fede e operosità, al tempo del re Gundobaldo, le Gallie furono difese dalla diffusione dell’eresia ariana. (dal Martirologio)

Sant’Ingenuino, vescovo – A Sabiona nella Rezia, oggi nel Tirolo, sant’Ingenuino, primo vescovo di questa sede. (dal Martirologio)

San Luca, abate – In Basilicata, san Luca, abate secondo gli insegnamenti dei Padri orientali, che condusse un’intensa vita monastica dapprima in Sicilia, sua patria, poi in vari luoghi in seguito all’invasione dei Saraceni, per morire infine presso Armento nel monastero dei santi Elia e Anastasio del Carbone da lui stesso fondato. (dal Martirologio)

San Saba, detto il Giovane, monaco – A Roma nel monastero di San Cesario, san Saba, detto il Giovane, monaco, che insieme al fratello san Macario, al tempo delle devastazioni saracene, diffuse instancabilmente per la Calabria e la Lucania la vita cenobitica. (dal Martirologio)

Sant’Albuino, vescovo – A Bressanone nell’Alto Adige, commemorazione di sant’Albuino, vescovo, che trasferì la cattedra episcopale da Sabiona a questa sede. (dal Martirologio)

Sant’Adelaide, badessa – A Colonia in Lotaringia, oggi in Germania, sant’Adelaide, prima badessa del monastero di Vilich, in cui introdusse la regola di san Benedetto, e poi del monastero di Santa Maria di Colonia, dove morì. (dal Martirologio)

Passione dei santi Paolo Miki e venticinque compagni, martiri – A Nagasaki in Giappone, passione dei santi Paolo Miki e venticinque compagni, martiri, la cui memoria si celebra domani. (dal Martirologio)

San Gesù Méndez, sacerdote e martire – In località Valtiervílla in Messico, san Gesù Méndez, sacerdote e martire, che morì per il regno di Cristo durante la persecuzione messicana. (dal Martirologio)

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