18 febbraio: Beato Giovanni da Fiesole, detto Angelico, sacerdote
Oggi la Chiesa ricorda il beato Angelico, un domenicano noto soprattutto per le sue opere pittoriche, proclamato da Giovanni Paolo II patrono universale degli artisti

A Roma, beato Giovanni da Fiesole, detto Angelico, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori, che, sempre unito a Cristo, espresse nelle sue pitture ciò che contemplava nel suo intimo, in modo tale da elevare le menti degli uomini alle realtà celesti. (dal Martirologio)
Beato Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro è stato un presbitero e pittore italiano, più noto come Beato Angelico, appartenente all’Ordine dei Frati Predicatori. Fu Giorgio Vasari, nelle Vite ad aggiungere al suo nome l’aggettivo “Angelico”, usato in precedenza da Domenico da Corella e da Cristoforo Landino. Nelle sue cercò di saldare i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l’attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell’arte e il valore mistico della luce.
Guido di Pietro nacque a Vicchio nel Mugello, nel 1395 circa. Scarse sono le notizie pervenuteci sulla sua famiglia: sappiamo che il padre, di nome Pietro, era figlio di un certo Gino, mentre il fratello Benedetto, di poco più piccolo dell’artista, lo aveva seguito nella vocazione religiosa, facendosi frate nel convento di San Domenico di Fiesole; la sorella Francesca, detta Checca, che mantenne rapporti stretti con i fratelli e si era sposata intorno al 1440, ed ebbe un figlio, Giovanni di Antonio, che più tardi aiutò lo zio nei cantieri di Roma e Orvieto.
Il 31 ottobre 1417, Guido veniva ammesso nella compagnia di San Niccolò del Carmine grazie alla presentazione del miniaturista Battista di Biagio Sanguigni, suo vicino di casa e forse socio di bottega, che fu per l’artista un grande riconoscimento delle sue capacità e nel gennaio-febbraio 1418, poco prima di prendere i voti nel Convento di San Domenico a Fiesole, ottenne dai capitani di Orsanmichele la commissione di un dipinto per la cappella Gherardini nella chiesa di Santo Stefano a Firenze, – nell’ambito di un progetto decorativo affidato ad Ambrogio di Baldese, forse maestro dell’Angelico – ma di questa opera come di altre precedenti alla sua vestizione religiosa non si hanno notizie certe.
Entrò quindi a far parte dei Domenicani osservanti, una corrente minoritaria formatisi all’interno dell’Ordine, in cui si osservava la Regola originale del fondatore, che richiedeva assoluta povertà e ascetismo. Non si conosce la data esatta in cui prese i voti, ma si può collocare tra il 1418 e il 1421, poiché ai novizi non era consentito di svolgere altra attività al di fuori della preparazione spirituale e solo in un pagamento del 1423 per un Crocifisso dell’Ospedale di Santa Maria Nuova (andato perduto) viene indicato come “frate Giovanni de’ Frati di San Domenico da Fiesole”, quindi già ordinato religioso.
L’ordinazione sacerdotale risale probabilmente al periodo 1427-1429. La più antica opera, legata alla committenza domenicana, venne richiesta al pittore dalle suore di San Pietro Martire di Firenze ed è attualmente conservata al Museo Nazionale di San Marco: Trittico di san Pietro martire, tempera su tavola, nell’opera ancora di concezione gotica, organizzata in comparti cuspidati secondo criteri di rigida simmetria, l’Angelico mostra di conciliare linguaggi diversi, dichiarando il proprio interesse per gli elementi stilistici tradizionali.
Infatti, se la collocazione scalare dei santi e la loro volumetria manifestano una consapevole adesione alle più avanzate istanze della cultura prospettica, la chiusa concezione del gruppo centrale richiama l’impianto adottato da Masaccio nella Sant’Anna metterza (1424-1425; Firenze, Galleria degli Uffizi). Inoltre, il pittore presenta un attrazione verso l’ornato, il dettaglio, prezioso, le figure eleganti ed allungate (come nell’arte tardogotica), dall’altro è interessato a collocarle in uno spazio realistico, regolato dalle leggi della prospettiva, e a dare loro un volume corporeo percettibile e saldo. Nelle vesti dei santi sono pesanti e con pieghe che scendono rettilinee, i colori accesi e luminosi, proprio come nelle miniature e lo spazio profondo e misurabile, come suggerisce la disposizione dei piedi dei santi a semicerchio.
A qualche anno prima può essere collocata la Pala di San Domenico (1425 ca.), tempera su tavola, da Guido di Pietro detto Beato Angelico (1395 – 1455 ca.), ubicata sull’altare maggiore della Chiesa di San Domenico a Fiesole.
Entro il 1429 l’Angelico si trovava nel convento di San Domenico a Fiesole, dove il 22 ottobre venne registrato come “frate Johannes petri de Muscello” in una riunione del capitolo. Figurò inoltre in altre riunioni capitolari nel gennaio 1431, nel dicembre 1432, nel gennaio 1433 (come vicario al posto del priore assente) e nel gennaio 1435. Inoltre è documentato il 14 gennaio 1434 in un incarico secolare, come giudice per una stima, assieme al pittore Rossello di Jacopo Franchi, del dipinto di Bicci di Lorenzo e Stefano d’Antonio per San Niccolò Oltrarno; per decidere il compenso da dare agli artisti si ricorreva infatti spesso a perizie di altri affermati pittori.
Riguardo alla produzione artistica, tra gli anni venti e gli anni trenta del Quattrocento si dedicò ad alcune grandi pale per la chiesa di San Domenico, che gli valsero una notevole fama e spinsero altri istituti religiosi a commissionargli repliche e varianti.
Nel 1425 circa eseguì la prima delle tre tavole per gli altari della Chiesa di San Domenico: la cosiddetta Pala di Fiesole (opera rimaneggiata da Lorenzo di Credi nel 1501, che rifece lo sfondo) tra le prime opere certe dell’artista. Si tratta di una pala molto originale, dove sono ormai assenti le divisioni dei santi entro gli scomparti di un polittico, anche se dovevano essere presenti nelle cuspidi rimosse poi nel restauro cinquecentesco.
Successivamente si dedicò alle celebri Annunciazioni su tavola. A queste opere seguì (o precedette), l’Annunciazione (1435 circa), conservata al Museo del Prado di Madrid e proveniente dal Convento di San Domenico a Fiesole. La pala ha un’impostazione transitoria tra il tardo gotico e il Rinascimento, ma è soprattutto nelle cinque storie della Vergine nella predella che il pittore operò con maggiore libertà e inventiva.
Quest’opera, che risente fortemente delle novità masaccesche, presenta per la prima volta il particolare uso della luce diafana, che avvolge la composizione, esaltando i colori e le masse plastiche delle figure in modo da unificare l’immagine e che divenne una delle caratteristiche più evidenti del suo stile. L’Annunciazione, in cui l’arcangelo Gabriele preannuncia alla Vergine Maria che sarebbe diventata la madre di Cristo, era un tema sentito nella pittura fiorentina. Il Beato Angelico contribuì molto a coltivare questa tradizione, adottando disegni moderni e rettangolari e composizioni unificate, con la Vergine seduta in un’aperta loggia colonnata all’interno di un giardino recintato. Nella stessa opera, in secondo piano, appaiono le figure di Adamo ed Eva, a simboleggiare i primi peccatori a redenzione dei quali Dio si è fatto uomo, ma anche a sottolineare che Maria, assentendo all’Ave dell’angelo, trasforma il nome di “Eva” (Eva/Ave): Maria, dunque, è la nuova Madre dell’umanità.
Tra il 1432 e il 1435 eseguì il Giudizio Universale, un dipinto destinato a decorare la cimasa di un seggio. L’opera, legata stilisticamente ai modi di Lorenzo Monaco, presenta una scansione dei piani che dimostra un precoce interesse per un’impostazione prospettica dello spazio. Agli stessi anni risale forse la Deposizione, dipinta per Palla Strozzi per la Sagrestia di Santa Trinità e il piccolo pannello con l’Imposizione del nome a san Giovanni Battista, dove si notano già le caratteristiche della maturità dell’artista: figure dolci, tratto morbido, colori brillanti e accordate delicatamente, costruzione prospettica rigorosa.
Le opere di questo periodo sono spesso esercitazioni sul tema della luce, come l’abbagliante Incoronazione della Vergine (1432 circa), esposta alla Galleria degli Uffizi, o quella del Louvre, databile al 1434 – 1435. L’Incoronazione del Louvre fu la terza e ultima tavola per gli altari della chiesa di San Domenico a Fiesole, e in essa la luce costruisce le forme e le indaga in ogni minimo dettaglio.
Nel luglio del 1433, l’Arte dei Linaioli di Firenze commissionò a Beato Angelico la realizzazione di un Tabernacolo, stipulando questo contratto: «MCCCCXXXIII a dí XI di luglio. Ricordo chome detto dí e’ sopradetti Operai aloghorono a frate Guido, vocato frate Giovanni de l’ordine di sancto Domenicho da Fiesole, a dipigner uno tabernacolo di Nostra Donna nella detta art,. dipinto di dentro et di fuori con colori oro et azzurro et ariento de’ migliori e più fini che si truovino con ogni sua arte et industria per tutto et per sua faticha et manifattura, per fi[orini] CLXXXX DX o quello meno che parrà alla sua conscientia».
In questa opera la Vergine è di impronta masaccesca, mentre negli angeli apteri si rifà all’espressività della scultura ghibertiana. Nel 1438 l’Angelico venne coinvolto nei fatti legati al trasferimento da San Domenico di Fiesole a San Marco di Firenze. Per Cosimo de’ Medici, nel 1439 – 1440, andò a Cortona per donare ai confratelli del locale convento domenicano la vecchia pala d’altare di San Marco, opera tardogotica di Lorenzo di Niccolò. Nella cittadina l’Angelico aveva già lasciato due opere e in quell’occasione affrescò una lunetta sul portale della chiesa del convento con la Madonna con Gesù Bambino e i santi Domenico e Pietro Martire.
Probabilmente Angelico mantenne il suo laboratorio di San Domenico fino a buona parte del 1440, quando già aveva avviato e portato a buon punto la Pala di San Marco.
L’Angelico fu protagonista di quell’irripetibile stagione artistica che, sotto il patronato dei Medici, ebbe il culmine nel 1439 con il Concilio di Firenze e che vide grandi opere pubbliche tra cui lo stesso convento di San Marco.
Alcuni frati di San Domenico di Fiesole nel 1435 presero sede a Firenze, a San Giorgio alla Costa e un anno dopo, nel gennaio 1436, ebbero la sede di San Marco, dopo aver risolto un contenzioso coi monaci Silvestrini sugli stessi ambienti. Qui nel 1438 Michelozzo, su incarico di Cosimo de’ Medici iniziò la costruzione di un nuovo convento, all’avanguardia sia dal punto di vista funzionale che architettonico. L’Angelico non seguì i compagni né a San Giorgio alla Costa né a San Marco, poiché era vicario a Fiesole. Verso il 1440 Cosimo il Vecchio gli dovette però affidare la direzione della decorazione pittorica del convento e la prima prova documentaria della presenza del pittore in San Marco risale al 22 agosto 1441.
Tra le tracce documentarie dell’Angelico a San Marco ci sono la partecipazione in Capitolo nell’agosto 1442 e nel luglio 1445, quando firmò con altri l’atto di separazione della comunità fiorentina da quella fiesolana di origine. Nel 1443 fu “sindicho” del convento, una funzione di controllo amministrativo.
L’intervento decorativo a San Marco fu deciso con l’assistenza di Michelozzo, che lasciò ampie pareti bianche da decorare, e fu un lavoro organico, che interessò tutti gli ambienti pubblici e privati del cenobio: dalla chiesa (la pala di San Marco sull’altare maggiore) al chiostro (quattro lunette e una Crocifissione), dal refettorio (Crocifissione distrutta nel 1554) alla sala capitolare (Crocifissione con i santi), dai corridoi (Annunciazione, Crocifissione con san Domenico e Madonna delle Ombre) fino alle singole celle. Alla fine il risultato fu la più estesa decorazione pittorica mai immaginata fino ad allora per un convento.
La decorazione prevedeva in ogni cella dei frati un affresco con un episodio tratto dal Nuovo Testamento o una Crocifissione dove la presenza di san Domenico indicava ai frati l’esempio da seguire e le virtù da coltivare (prostrazione, compassione, preghiera, meditazione, ecc.).
Molto si è scritto circa l’autografia dell’Angelico per un complesso di decorazioni di così ampia portata, realizzato in tempi relativamente brevi. Gli affreschi del piano terra vengono concordemente attribuiti all’Angelico, in toto o in parte. Più incerta e discussa è l’attribuzione dei quarantatré affreschi delle celle e dei tre dei corridoio del primo piano. Se i contemporanei come Giuliano Lapaccini attribuiscono tutti gli affreschi all’Angelico, oggi, per un mero calcolo pratico del tempo necessario a un individuo per portare a termine un’opera del genere e per studi stilistici che evidenziano tre o quattro mani diverse, si tende a attribuire all’Angelico l’intera sovrintendenza della decorazione ma l’autografia di solo un ristretto numero di affreschi, mentre gli altri vennero dipinti su suo cartone o nel suo stile da allievi, tra cui Benozzo Gozzoli.
Gli affreschi di San Marco non furono solo una pietra miliare dell’arte rinascimentale, ma sono anche i più famosi ed amati del Beato Angelico. La loro forza deriva, almeno in parte, dall’assoluta armonia e semplicità, che consente di trascendere lo scopo immediato per il quale furono dipinti, e cioè quello della devota contemplazione fornendo spunti appropriati alla meditazione religiosa. Gli affreschi segnarono così una nuova fase dell’arte dell’Angelico, caratterizzata da una parsimonia nelle composizioni e da un rigore formale mai usati prima, frutto della raggiunta maturità espressiva dell’artista.
I fatti evangelici vengono così letti con un’efficacia maggiore che in passato, scevra da distrazioni decorative superflue e adeguata più che mai alla concretezza narrativa e psicologica delle grandi opere di Masaccio. le figure sono poche e diafane, gli sfondi deserti oppure composti da architetture nitide inondate di luce e spazio, arrivando a toccare vertici di trascendenza. Le figure appaiono semplificate e alleggerite, la cromia più tenue e spenta. In tali contesti la forte plasticità di forma e colore, derivata da Masaccio, crea per contrasto un senso di viva astrazione. Spesso nelle scene compaiono santi domenicani come testimoni, che attualizzavano l’episodio sacro inserendolo nella gamma dei principi dell’Ordine.
Non si conosce la data di esecuzione delle singole opere di San Marco, ma in genere se ne stima l’esecuzione tra il 1437 (o 1438) e il 1441 circa la realizzazione della Pala di San Marco, per poi iniziare, verso il 1440 – 1441 appunto, gli affreschi del corridoio est, lato esterno (1-11), dove partecipò anche un aiuto (il Maestro della cella 2), molto vicino al Maestro, che supervisionò. Nel 1441 – 1442 è sicura la datazione della Crocifissione con i santi, nel capitolo. Per analogie stilistiche si rimanda al 1442 anche l’Adorazione dei Magi. Nello stesso periodo vennero probabilmente affrescate le celle dalla 24 alla 28, non di mano dell’Angelico, ma direttamente ispirate a quelle sul lato opposto e probabilmente supervisionate da vicino dal maestro.
Gli affreschi del chiostro paiono essere successivi alla Crocifissione della Sala Capitolare, e l’affresco del Calvario con san Domenico è di solito indicato come l’ultima opera del maestro prima della partenza per Roma (1445). Gli affreschi dalla cella 31 alla 37 non sono databili tramite prove e si sa solo che dovevano essere terminati nel 1445. La Madonna delle Ombre, mostra uno stile più maturo che viene attribuito a dopo il ritorno da Roma, negli anni 1450.
In una data imprecisata, probabilmente nel 1445, l’Angelico venne convocato a Roma da papa Eugenio IV, che aveva vissuto ben nove anni a Firenze ed aveva avuto sicuramente modo di apprezzare la sua opera, anche perché aveva soggiornato nel Convento di San Marco. Quell’anno la sede dell’Arcidiocesi di Firenze divenne vacante e pare che, secondo voci insistenti, proprio all’Angelico fu offerto il pallio, il quale declinò offrendo un giudizio al papa circa la nomina invece di Antonino Pierozzi (gennaio 1446). Chiaro è il fatto che l’Angelico fosse intellettualmente stimato abbastanza da poter offrire consigli su una nomina al papa, come affermarono anche sei testimoni in occasione del processo di canonizzazione di Antonino, o addirittura da poter amministrare un’arcidiocesi.
L’Angelico stette a Roma per tutto il 1446 e il 1447, e risiedette nel Convento di Santa Maria sopra Minerva. A San Pietro l’Angelico avrebbe dipinto gli affreschi nell’abside della basilica e una cappella “parva” con Storie di Cristo, distrutti all’epoca di papa Giulio II. In quest’ultima cappella sappiamo che la decorazione doveva avere un carattere specialmente “umanistico”, con una serie di ritratti di uomini illustri citati dal Vasari.
Forse in città l’Angelico conobbe anche il pittore Jean Fouquet, impegnato a dipingere un ritratto del papa approssimativamente tra l’autunno del 1443 e l’inverno del 1446. Il 23 febbraio 1447 papa Eugenio morì e il 6 marzo venne eletto il suo successore Niccolò V. Se non esistono documenti legati all’attività dell’Angelico tra il 1445 e il 1446 (forse lavorò a una delle cappelle di San Pietro, più tardi distrutta), con l’arrivo di Niccolò sono ricordati tre ricevute di pagamento (datate dal 9 maggio al 1 giugno) per l’unica sua opera sicura che sopravviva a Roma, gli affreschi della Cappella Niccolina.
Si tratta di tre pareti con le Storie di santo Stefano e san Lorenzo, della volta con Evangelisti e di otto figure a grandezza naturale con Padri della Chiesa sui lati, che vennero dipinti con il ricorso di vari aiuti, tra cui spiccava già la figura di Benozzo Gozzoli. In questi affreschi le figure solide, dai gesti pacati e solenni, si muovono in un’architettura maestosa. l’Angelico dovette essere in rapporti di grande familiarità col papa, lavorando nei suoi appartamenti, e sicuramente ebbe modo di venire coinvolto negli interessi umanistici e nei vasti orizzonti culturali di Niccolò V. Tali stimoli sembrano manifestarsi appieno nelle opere dipinte per la corte papale, dove lo stile sfarzoso rievoca concettualmente l’antica Roma imperiale.
L’11 maggio 1447 l’Angelico e la sua bottega, con il consenso del papa, andarono ad Orvieto per trascorrere i mesi estivi e lavorare nella volta della Cappella della Madonna di San Brizio nella Cattedrale, dove il gruppo restò fino alla metà di settembre e dipinse due pennacchi con Gesù Cristo Giudice e Profeti. La velocità con cui vennero dipinte le vele testimonia l’ampio ricorso agli aiuti. L’autografia dell’Angelico è di solito confermata per la figura del Cristo, di un gruppo di angeli sulla sinistra e di una parte delle teste dei profeti seduti nel secondo spicchio. Le forme, sebbene abbiano attirato un interesse relativamente modesto della critica rispetto agli affreschi vaticani, sono caratterizzate da composizioni spaziose e da figure maestose.
Tornato l’Angelico a Roma, completò la Cappella Niccolina, entro il 1448. Il 1 gennaio 1449 era già impegnato in un altro appartamento del Vaticano, con la decorazione dello studio-biblioteca di Niccolò V, forse adiacente alla cappella Niccolina. Lo studio pare che fosse di ampiezza e difficoltà minore della cappella, e di esso non resta traccia perché venne distrutto durante un successivo ampiamento del palazzo. Nel giugno 1449 la decorazione doveva essere già a buon punto, poiché il principale assistente del maestro, il Gozzoli, ritornò ad Orvieto; entro la fine dell’anno o i primi mesi del 1450 la decorazione doveva essere terminata e l’Angelico tornò a Firenze.
Entro il 10 giugno 1450 l’Angelico era tornato in Toscana, dove venne nominato, in quella data, priore di San Domenico di Fiesole prendendo il posto del fratello defunto. Mantenne l’incarico di priore per la durata normale di due anni e nel marzo 1452 si trovava ancora a Fiesole, quando venne recapitata una lettera all’arcivescovo Antonino dal Provveditore al Duomo di Prato, che per chiedere l’Angelico ad affrescare la cappella maggiore della cattedrale pratese. Otto giorni dopo la richiesta venne formalizzata anche al pittore, che accettò di tornare col Provveditore a Prato per valutare le condizioni. L’Angelico trattò con quattro delegati e col podestà, ma dell’accordo non si fece niente (1 aprile 1452), probabilmente perché l’artista aveva già molte opere commissionate e non voleva sobbarcarsi un’impresa tanto grande. I lavori vennero poi affidati a Filippo Lippi.
Per gli anni successivi la documentazione è inesistente o scarsa. Alcuni, come Pope-Hennessy, indicano come prime opere dipinte dopo il rientro da Roma gli affreschi nel convento di San Marco dell’Annunciazione del corridoio Nord e della Madonna delle Ombre, dove avrebbe messo a frutto la lezione romana (altri invece li datano agli anni 1440). Analoga incertezza ruota attorno a una datazione tarda dell’Incoronazione della Vergine del Louvre, mentre è sicuramente documentabile a dopo il 1450 la Pala di Bosco ai Frati, commissionata da Cosimo de’ Medici: nella predella è infatti dipinti san Bernardino da Siena con l’aureola, ma la sua santificazione risale appunto al 1450.
Indiscussa è anche la datazione dell’Armadio degli Argenti, una serie di tavolette dipinte che componevano il doppio sportello di un armadio di ex-voto nella basilica della Santissima Annunziata, commissionato da Piero il Gottoso tra il 1451 e il 1453. In queste tavolette, con storie della Vita e Passione di Cristo, si ritrovano molti temi già affrontati anni prima dall’Angelico, ma sorprende come la sua inventiva, anche nella fase tarda della produzione, non accennasse a diminuire. Sebbene non tutte le tavolette sono di sua mano, alcune si distinguono per originalità compositiva, vivacità ed effetti spaziali e luminosi, come l’Annunciazione (tema ricorrente in tutta la produzione angelichiana) o la Natività.
Il 2 dicembre 1454 venne richiesto per una stima degli affreschi nel Palazzo dei Priori a Perugia assieme a Filippo Lippi e Domenico Veneziano, i tre pittori fiorentini maggiormente ammirati dell’epoca. L’ultima opera dell’Angelico è in genere indicata nel tondo con l’Adorazione dei Magi, avviato forse nel 1455 e completato in seguito da Filippo Lippi.
Si pensa che nel 1453 o nel 1454 l’Angelico tornò a Roma, per realizzare probabilmente un’altra commissione papale della quale non si ha notizia certa. Morì a Roma il 18 febbraio 1455, poche settimane prima della scomparsa del suo mentore Niccolò V. Venne sepolto nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva, ricca di testimonianze di personaggi fiorentini anche in seguito.
La sua lastra tombale è ancora oggi visibile, vicino all’altare maggiore. Vennero scritti due epitaffi, verosimilmente da Lorenzo Valla. Il primo, perduto, si doveva trovare su una lapide alla parete e recitava: «La gloria, lo specchio, l’ornamento dei pittori, Giovanni il Fiorentino è conservato in questo luogo. Religioso, egli fu un fratello del santo ordine di San Domenico, e fu lui stesso un vero servo di Dio. I suoi discepoli piangono la morte di un così grande maestro, perché chi troverà un altro pennello come il suo? La sua patria e il suo ordine piangono la morte di un insigne pittore, che non aveva uguali nella sua arte».
Una seconda epigrafe è posta sulla lastra tombale in marmo, dove è scolpito un rilievo del corpo del pittore con la tonaca entro una nicchia, eseguito nel 1455 da Isaia da Pisa, nella quale si legge: «NON MIHI SIT LAUDI QUOD ERAM VELUT ALTER APELLES, SED QUOD LUCRA TUIS OMNIA CHRISTE DABAM. ALTERA NAM TERRIS OPERA EXTANT, ALTERA CAELO, URBS ME JOHANNEM FLOS TULIT ETRURIAE» «Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell’Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. La città di Firenze dette a me, Giovanni, i natali»
L’Angelico è stato beatificato nel 1984 ed è considerato il protettore degli artisti. Papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 1982 ha concesso il suo culto liturgico a tutto l’Ordine e il 18 febbraio 1984 lo ha proclamato patrono universale degli artisti. Lo stesso pontefice nella Lettera agli artisti del 4 aprile 1999, ponendolo come modello per gli artisti di ogni tempo, scrive: «L’artista, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. […] Modello eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico”».
Altri Santi che la Chiesa commemora il 18 febbraio
Santi Sadoth, vescovo, e centoventotto compagni, martiri – In località Beth Lapat nel regno di Persia, passione dei santi Sadoth, vescovo di Seleucia, e centoventotto compagni, martiri: sacerdoti, chierici e vergini consacrate, rifiutatisi di adorare il sole, furono messi in prigione, sottoposti per lunghissimo tempo a crudeli torture e infine trucidati per ordine del re. (dal Martirologio)
Sant’Elladio, abate – A Toledo in Spagna, sant’Elladio, che, dapprima amministratore della corte regia e dello stato, divenne poi abate di Agalia e, elevato infine alla sede episcopale di Toledo, diede eccellente esempio della sua carità. (dal Martirologio)
San Tarasio, vescovo – A Costantinopoli, san Tarasio, vescovo, che, insigne per pietà e dottrina, aprì il Concilio Niceno II, nel quale i Padri difesero il culto delle sacre immagini. (dal Martirologio)
Sant’Angilberto, abate – Nel monastero di Centule nel territorio di Amiens in Francia, sant’Angilberto, abate, che, abbandonati gli incarichi di palazzo e militari, con il consenso della moglie Berta, che prese lei pure il sacro velo, si ritirò a vita monastica e resse felicemente il cenobio di Centule. (dal Martirologio)
San Teotonio – A Coimbra in Portogallo, san Teotonio, che si recò due volte in pellegrinaggio a Gerusalemme e, rifiutata la custodia del Santo Sepolcro, tornato in patria fondò la Congregazione dei Canonici regolari della Santa Croce. (dal Martirologio)
San Francesco Régis Clet, sacerdote – Nella città di Wuchang nella provincia dello Hubei in Cina, san Francesco Régis Clet, sacerdote della Congregazione della Missione e martire, che per trent’anni annunciò il Vangelo tra grandissime difficoltà e per questo dopo una dura prigionia, ingannato da un apostata, venne strangolato per il nome di Cristo. (dal Martirologio)
San Giovanni Pietro Néel, martire – Nella città di Guizhou sempre in Cina, santo martire Giovanni Pietro Néel, sacerdote della Società per le Missioni Estere di Parigi, che, accusato di aver predicato la fede, legato alla coda di un cavallo e trascinato in una violenta corsa, colpito con ogni genere di scherni e di supplizi, morì alla fine decapitato. Con lui subirono il supplizio anche i santi martiri Martino Wu Xuesheng, catechista, Giovanni Zhang Tianshen, neofita, e Giovanni Chen Xianheng. (dal Martirologio)
Santa Geltrude (Caterina) Comensoli, vergine – A Bergamo, Santa Geltrude (Caterina) Comensoli, vergine, che fondò una Congregazione di religiose per l’adorazione del Santissimo Sacramento e la formazione della gioventù. (dal Martirologio)
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