16 settembre: Santi Cornelio, papa, e Cipriano, vescovo, martiri

La Chiesa oggi ricorda un papa e un vescovo entrambi martiri

Memoria dei santi martiri Cornelio, papa, e Cipriano, vescovo, dei quali il 14 settembre si ricordano la deposizione del primo e la passione del secondo, mentre oggi il mondo cristiano li loda con una sola voce come testimoni di amore per quella verità che non conosce cedimenti, da loro professata in tempi di persecuzione davanti alla Chiesa di Dio e al mondo. (dal Martirologio)

Nato probabilmente verso il 180; secondo il “Catalogo Liberiano” dei papi, Cornelio regnò due anni, tre mesi e dieci giorni. Tale fonte, per questo tipo di dati, è degna di fede in virtù degli studi effettuati da Giusto Lipsio, Lightfoot, e Adolf von Harnack.

Il suo predecessore, Fabiano, fu messo a morte dall’imperatore Decio il 20 gennaio 250, ma si dovette aspettare il successivo mese di marzo quando, grazie all’assenza dell’imperatore, l’intensità della persecuzione diminuì. Per la scelta del nuovo papa sorsero immediatamente due concorrenti di pensiero contrastanti sulla questione dei lapsi: coloro che erano rimasti saldi nella fede si divisero tra indulgenti e rigoristi verso coloro che, per paura della persecuzione, avevano ceduto ed ora sarebbero voluti tornare in seno alla Chiesa.

Infine, a 14 mesi dal martirio di Fabiano, i 16 vescovi convenuti a Roma elessero Cornelio contro la sua volontà, ma in base “al giudizio di Dio e di Cristo, alla testimonianza di pressoché tutto il clero, al voto delle persone ivi convenute, al beneplacito dei presbiteri anziani e degli uomini di buona volontà, in un tempo in cui nessuno lo aveva preceduto, quando la sede di Fabiano che è la sede di Pietro, ed il soglio erano vacanti” (san Cipriano, Epistole lV, 24).

Cornelio era un fautore dell’indulgenza, ma Novaziano, che aveva retto la sede vacante in quel periodo, era un rigorista e contestò l’elezione del nuovo papa. Questi era convinto che Cornelio fosse un debole e sosteneva che nemmeno i vescovi potevano garantire la remissione di peccati gravi come omicidio, adulterio, e apostasia, ma che questi potevano essere rimessi soltanto nel Giudizio Finale.

Alcune settimane più tardi Novaziano si autoproclamò papa e l’intero mondo cristiano fu agitato dal uno scisma che sarebbe durato fino al V secolo. Ma l’appoggio di San Cipriano assicurò a Cornelio i cento vescovi d’Africa, e l’influenza di Dionisio, vescovo di Alessandria d’Egitto, portò anche i vescovi orientali dalla sua parte; in Italia il papa riuscì a mettere insieme un sinodo di 60 vescovi che accolse la linea morbida stabilita dal Concilio di Cartagine (251). Cornelio gli scrisse tre lettere, delle quali Eusebio di Cesarea riportò alcuni estratti (Storia ecclesiastica, vi.43) in cui il papa elencava i difetti nell’elezione di Novaziano e ne parlava con estrema amarezza.

Da questi estratti si evince che, in quel periodo, la chiesa di Roma era formata da 46 presbiteri, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 tra esorcisti, lettori e ostiarii e 1500 tra vedove e persone bisognose. Grazie a questi dati Burnet e Edward Gibbon valutarono che il numero dei Cristiani a Roma si aggirava intorno alle 50.000 unità; ma secondo Benson e Harnack questo numero era troppo elevato. Degli scritti di Cornelio sono giunte fino a noi 2 lettere a Cipriano e nove risposte da Cipriano al papa. Monsignor Merrati dimostrò che il testo originale delle lettere di Cornelio è nel “latino volgare” colloquiale che si usava all’epoca, e non nello stile più classico usato dall’ex oratore Cipriano e dal dotto filosofo Novaziano.

Dopo la sua elezione, Cornelio sanzionò le miti misure suggerite da san Cipriano ed accettò la proposta del concilio di Cartagine del 251 di riabbracciare nella comunione, dopo la giusta penitenza, coloro che si erano persi durante la persecuzione di Decio.

Secondo le fonti cristiane, alla morte dell’imperatore Decio, nel 252, il suo successore Gaio Vibio Treboniano Gallo avrebbe iniziato una nuova persecuzione contro i cristiani: la ragione sarebbe stata l’accusa di essere portatori della pestilenza che colpì Roma nel 251/252. In realtà pare che l’unico atto di Gallo sia stato proprio l’arresto e incarceramento di Cornelio, che fu portato a Centumcellae, dove morì nel 253.

Cipriano afferma ripetutamente che Cornelio fu martirizzato; il Catalogo Liberiano riporta ibi cum gloria dormicionem accepit, e questo può significare che morì a causa dei rigori a cui fu sottoposto durante la sua deportazione, sebbene documenti successivi affermino che fu decapitato.

Alla fine del III secolo il suo corpo fu traslato nelle Catacombe di San Callisto, a Roma. Le sue reliquie furono poi trasferite in una basilica voluta da papa Leone I e quindi papa Adriano I le portò nel territorio di Capracoro, dove il pontefice aveva la casa paterna. Al tempo di papa Gregorio IV il suo corpo riposava nella basilica di Santa Maria in Trastevere. In quel tempo parte delle reliquie furono portata a Compiègne (Francia), dove andarono disperse con la Rivoluzione francese, mentre nella seconda metà del XVIII secolo altre parti del suo corpo furono portate nella Chiesa dei Santi Celso e Giuliano.

San Girolamo riportava che Cornelio e Cipriano patirono il martirio nello stesso giorno di anni diversi, e la sua affermazione è stata generalmente accettata. La festa di san Cipriano, infatti, secondo il Depositio Martirum del IV secolo ricorreva il XVIII kl octob Cypriani Africae Romae celebratur in Callisti e veniva celebrata a Roma presso la tomba di Cornelio.

San Cornelio non fu sepolto nella cappella dei papi, ma in una catacomba adiacente, forse in quella di un ramo della Gens Cornelia. L’iscrizione posta sulla sua tomba è in lingua latina: CORNELIUS * MARTYR*, mentre quelle di papa Fabiano e papa Lucio I sono in lingua greca. La sua memoria viene celebrata con quella di San Cipriano il 14 settembre, giorno presumibile della sua traslazione da Centumcellae alle catacombe.

Questo papa viene venerato sia dai cattolici che dai copti. È oggetto di particolare venerazione in Bretagna, dove è il santo patrono degli animali dotati di corna nella regione di Carnac. Nella chiesa parrocchiale di Carnac esiste una statua di san Cornelio intento a benedire due tori, circondato da pietre erette. Il 14 settembre di ogni anno i contadini portano sul luogo il loro bestiame per la benedizione. Anche in Cornovaglia, tra le popolazioni Bretoni d’oltremanica, esiste il culto del santo ed una parrocchia ad esso dedicata con il nome di Saint Cornelly.

Sulla figura di san Cornelio esistono alcune leggende legate alla creazione dei Menhir di Carnac in Bretagna Meridionale. Secondo le tradizioni popolari, infatti, dopo il suo esilio da Roma il santo, servendosi di due buoi per il viaggio (da qui la sua attribuzione a patrono degli animali con le corna), si recò in Francia, dove giunse inseguito da alcuni legionari.

Di Cipriano invece sappiamo poco sulla sua infanzia. La data di nascita (probabilmente tra il 200 e il 210) ed i particolari della sua gioventù sono ignoti. La sua conversione avvenne in età matura ed il battesimo nel 246. Fu un famoso oratore, possedeva una considerevole ricchezza e verosimilmente rivestiva una posizione di prestigio nella città di Cartagine.

Dalla sua biografia, scritta dal diacono Ponzio, si evince che i suoi modi erano dignitosi, ma non severi, e affettuosi, ma senza cadere nelle effusioni. Il suo dono per l’eloquenza è evidente nelle sue opere. Non era un pensatore, un filosofo o un teologo, ma soprattutto un uomo di mondo dalle grandi energie e dal carattere impetuoso. La sua conversione si deve ad un anziano presbitero chiamato Ceciliano, con il quale sembra fosse andato a vivere. Ceciliano, in punto di morte, affidò a Cipriano la cura della moglie e della famiglia.

Quando era ancora un semplice catecumeno, Cipriano decise di vivere in castità e di dare la maggior parte dei suoi redditi ai poveri. Vendette tutte le sue proprietà, compresi i giardini che possedeva a Cartagine, che gli furono restituiti[3], dopo essere stati riacquistati dai suoi amici; tuttavia, egli li avrebbe rivenduti, se solo la persecuzione non lo avesse reso imprudente. Il suo battesimo, probabilmente, ebbe luogo il 18 aprile 246, vigilia di Pasqua.

Cipriano era certamente solo un recente convertito quando fu acclamato vescovo di Cartagine nel 248 o all’inizio del 249, ma aveva rivestito tutti i gradi del ministero. Nonostante avesse rifiutato la carica, il popolo lo costrinse ad accettarla. Tuttavia ci fu una minoranza che si oppose alla sua elezione, compresi cinque presbiteri, che rimasero suoi nemici; comunque Cipriano narrava che era stato ben scelto “dopo il giudizio divino, con il voto del popolo ed il consenso dei vescovi”.

Nell’ottobre del 249, Decio divenne imperatore. Convinto del grande pericolo rappresentato dalla religione cristiana per lo Stato, nel gennaio del 250 pubblicò un editto che imponeva a tutti i sudditi di offrire un sacrificio agli dèi, al fine di provare l’adesione alla religione romana. L’offerta sacrificale doveva essere compiuta davanti a una commissione di cinque membri che, in seguito, avrebbe rilasciato il libellus, una sorta di attestazione di fedeltà, che esentava dai rigori della legge previsti per i cristiani[4].

Il 20 gennaio papa Fabiano fu martirizzato e, in quei giorni, Cipriano si nascose in un luogo sicuro. Per questo i suoi nemici lo avrebbero continuamente rimproverato. Ma rimanere a Cartagine avrebbe significato sollecitare la morte, mettere in grave pericolo gli altri e lasciare la chiesa senza governo; scegliere un nuovo vescovo sarebbe stato impossibile, come a Roma. Una parte del clero cedette, altri scapparono; Cipriano li sospese semplicemente, poiché i loro ministeri erano necessari ed essi erano meno in pericolo del vescovo. Dal suo rifugio consigliava i confessori e scriveva eloquenti panegirici sui martiri. Quindici di loro presto morirono in prigione ed uno nelle miniere. All’arrivo del proconsole, in aprile, la durezza della persecuzione aumentò. Il 17 fu martirizzato san Mappalico.

Ma c’era un’altra faccia della medaglia. A Roma, i cristiani terrorizzati erano accorsi ai templi per sacrificare agli dei. A Cartagine, la maggioranza dei fedeli era caduta nell’apostasia. Alcuni non avevano sacrificato, ma avevano acquistato i libelli, i certificati che provavano che lo avevano fatto. Avevano così salvato le loro famiglie al prezzo del loro peccato.

Di questi libellatici Cartagine era piena. Alcuni di coloro che erano caduti non si pentirono, altri si unirono agli eretici, ma la maggior parte chiese il perdono e la riammissione. Alcuni, che avevano sacrificato sotto tortura, tornarono per essere torturati di nuovo. Casto ed Emilio furono bruciati per aver ritrattato, altri esiliati; ma tali casi furono rari. Alcuni cominciarono anche ad effettuare le penitenze canoniche. Il primo ad essere perseguitato a Roma fu un giovane Cartaginese, Celerino. Dopo la sua guarigione, Cipriano lo consacrò lettore e poi diacono. Sua nonna Celerina e tre zii, Laurenzio, Laurentino e Ignazio, furono martirizzati, mentre le sue due sorelle caddero nell’apostasia sotto la minaccia della tortura. Quando si pentirono, Cipriano le mise al servizio di coloro che erano in prigione.

In quei frangenti, un certo Luciano ebbe da un martire chiamato Paolo, prima della sua passione, l’incarico di riammettere in comunione chiunque ne facesse richiesta e di distribuire queste “indulgenze” con la formula: “Gli sia permesso di essere in comunione con la sua famiglia”. Nel 197, Tertulliano aveva già parlato dell'”abitudine” di coloro che non erano in pace con la chiesa di elemosinarla dai martiri. Molto tempo dopo, però, le cose erano cambiate, nei suoi giorni di montanista (circa 220), sosteneva che gli adulteri, che papa Callisto I perdonava solo dopo la dovuta penitenza, dovevano essere riammessi in comunione semplicemente implorando i confessori e coloro che erano stati condannati ai lavori forzati nelle miniere. Per analogia, si scopre che Luciano perdonava in nome dei confessori, che erano ancora vivi, un manifesto abuso. Lo stesso Mappalico era intervenuto soltanto in favore di sua sorella e di sua madre. Sembrava, quindi, che i Lapsi non dovessero fare atto di penitenza e Cipriano si lamentò di questo.

Nel frattempo, insieme ad una lettera, non firmata, indirizzata al clero di Cartagine, che accusava Cipriano di aver abbandonato il suo gregge e che dava indicazioni su come comportarsi nei confronti dei lapsi, erano giunte da Roma notizie ufficiali della morte di papa Fabiano. Cipriano spiegò il suo comportamento ed inviò a Roma copia delle 13 lettere che aveva scritto dal suo nascondiglio. I cinque presbiteri che gli si opponevano, tuttavia, stavano riammettendo in comunione tutti coloro che avevano avuto raccomandazioni dai confessori, e i confessori stessi avevano istituito un’indulgenza generale, in base alla quale i vescovi dovevano riammettere in comunione tutti quelli che avevano esaminato. Ciò era un oltraggio alla disciplina, tuttavia Cipriano era incline a dare un certo valore alle indulgenze così impropriamente concesse, ma tutto doveva essere fatto in sottomissione al vescovo.

Propose che i libellatici potessero essere riammessi, se in pericolo di morte, da un presbitero o da un diacono, ma gli altri avrebbero dovuto attendere la fine della persecuzione, quando si sarebbero potuti convocare dei concili a Roma e a Cartagine per prendere una decisione comune. Un certo riguardo doveva essere mostrato per i privilegi dei confessori, tuttavia i lapsi non si sarebbero dovuti trovare in una posizione migliore rispetto a coloro che avevano resistito ed erano stati torturati, spogliati dei loro beni, o esiliati. I colpevoli, in seguito, furono terrorizzati dai prodigi che si verificarono: un uomo divenne muto di fronte allo stesso Capitolo in cui aveva negato Cristo; un altro divenne pazzo nei bagni pubblici e si mangiò la lingua che aveva assaggiato il sacrificio pagano; alla presenza di Cipriano stesso, un bambino che era stato portato dalla nutrice all’altare pagano e quindi alla Celebrazione eucaristica officiata dal vescovo, vomitò l’ostia che aveva ricevuto nel calice; ad un altro, all’apertura del ricettacolo in cui, abitualmente, veniva conservato il Sacramento consacrato per la Comunione, venne impedito il sacrilego contatto da un fuoco che vi si sprigionò.

Verso settembre, tramite due lettere scritte dal famoso Novaziano a nome dei suoi colleghi, Cipriano ricevette la promessa di aiuto da parte dei presbiteri romani. All’inizio del 251 la persecuzione calò d’intensità. I confessori furono liberati e si poté riunire un concilio a Cartagine. A causa, però, delle trame di alcuni presbiteri, Cipriano non fu in grado di lasciare il suo rifugio fino a dopo Pasqua (il 23 marzo). Tuttavia, scrisse una lettera al suo gregge per denunciare il più perfido dei cinque presbiteri, Novato, ed il suo diacono Felicissimo[6]. L’argomento della lettera venne sviluppato più approfonditamente nel trattato De Ecclesiae Catholicae Unitate che Cipriano scrisse in questo periodo.

Questo celebre pamphlet venne letto dal suo autore di fronte al concilio che si tenne in aprile, quello in cui poté ottenere il supporto dei vescovi contro lo scisma originato da Felicissimo e da Novato, che avevano un grande seguito. L’unità di cui Cipriano si stava occupando non era tanto l’unità dell’intera chiesa, la necessità della quale comunque postulava, quanto l’unità da mantenere all’interno di ogni diocesi tramite l’unione con il vescovo; l’unità della Chiesa, infatti, era garantita dall’unione dei vescovi che “sono incollati l’uno all’altro”, quindi chiunque non è con il suo vescovo è fuori dalla chiesa e non può essere unito a Cristo; il prototipo del vescovo è Pietro, il primo vescovo.

Intorno al periodo dell’apertura del concilio (226), giunsero da Roma due lettere. Una di queste, che annunciava l’elezione di un nuovo papa, san Cornelio, fu letta da Cipriano all’assemblea; l’altra, che conteneva tali violente e improbabili accuse contro il nuovo papa, fu passata sotto silenzio. Tuttavia, furono inviati a Roma due vescovi, Caldonio e Fortunato, affinché acquisissero ulteriori informazioni.

Il concilio, prima di proseguire, avrebbe atteso il loro ritorno, tale era l’importanza di un’elezione papale. Nel frattempo, giunse un altro messaggio con la notizia che Novaziano, il più eminente fra il clero romano, era stato eletto papa. Fortunatamente tornarono da Roma due presbiteri africani, Pompeo e Stefano, che erano stati presenti all’elezione di Cornelio e che poterono testimoniare che tale elezione era stata regolare. Fu così possibile rispondere alle pretese degli inviati di Novaziano.

Fu anche inviata a Roma una breve lettera in cui veniva esposta la discussione che si era svolta nel concilio. Poco dopo, insieme al rapporto di Caldonio e Fortunato, giunse una lettera da parte di papa Cornelio in cui questi si lamentava del ritardo nel suo riconoscimento. Cipriano scrisse a Cornelio spiegando il suo comportamento prudente ed aggiunse anche un’altra lettera ai confessori che erano i principali sostenitori dell’antipapa, lasciando a Cornelio la decisione sul suo utilizzo. Inviò, inoltre, copia dei suoi due trattati, De Unitate e De Lapsis (composto subito dopo l’altro), con l’auspicio che i confessori le leggessero e capissero le implicazioni di uno scisma. È proprio in questa copia del De Unitate che Cipriano probabilmente aggiunse una versione alternativa del quarto capitolo.

Le rimostranze di Cipriano ebbero il loro effetto ed i confessori si schierarono dalla parte di Cornelio. Ma, per due o tre mesi, la confusione all’interno della chiesa cattolica fu terribile. Nessun altro evento in questi primi tempi dimostra così chiaramente l’enorme importanza del papato sia ad oriente sia ad occidente. Dionisio di Alessandria unì la sua grande influenza a quella del primate cartaginese che presto poté scrivere che Antiochia, Cesarea e Gerusalemme, Tiro e Laodicea, tutta la Cilicia e la Cappadocia, la Siria e l’Arabia, la Mesopotamia, il Ponto e la Bitinia, erano di nuovo in comunione con il loro vescovo ed erano tutte in concordia[8]. Da questo si comprende la vastità del problema. Cipriano affermava che Novaziano “assunse il primato”[9] ed inviò i suoi nuovi apostoli in molte città; e dove c’erano vescovi ortodossi, provati dalla persecuzione, osò crearne di nuovi affinché li sostituissero[10]. Tale era il potere di un antipapa del III secolo.

Bisogna ricordare che all’inizio dello scisma non fu sollevata alcuna questione di eresia e che Novaziano, dopo essersi proclamato papa, enunciò solamente il suo rifiuto di perdono per i lapsi. I motivi per cui Cipriano sosteneva Cornelio furono dettagliatamente spiegati nell’Epistola LV, indirizzata ad un vescovo che, inizialmente, propendeva per le argomentazioni di Cipriano, che lo aveva incaricato di informare Cornelio che “ora era in comunione con lui, e quindi con la Chiesa cattolica”, ma in seguito aveva cambiato idea. Evidentemente è implicito che se non fosse stato in comunione con Cornelio sarebbe stato fuori della chiesa cattolica. Scrivendo al papa, Cipriano si scusava del suo ritardo nel riconoscimento; ma aveva almeno sollecitato tutti coloro che si recavano a Roma di assicurarsi che riconoscessero la radice della Chiesa cattolica[11]. Cipriano continuava dicendo che aveva atteso un rapporto formale dei vescovi che aveva inviato a Roma, prima di far prendere una decisione a tutti i vescovi d’Africa, Numidia e Mauretania, affinché, quando fossero stati dissipati i dubbi, tutti “avrebbero potuto approvare saldamente ed essere in comunione” con lui.

Per uno strano caso, il principale sostenitore del rigorista Novaziano era il presbitero Novato che, a Cartagine, stava riconciliando indiscriminatamente i lapsi senza la dovuta penitenza. La sua adesione al partito rigorista ebbe il curioso risultato di indebolire a Cartagine l’opposizione a Cipriano. È vero che Felicissimo si difese per un certo periodo; ottenne persino che cinque vescovi, scomunicati e deposti, consacrassero un certo Fortunato in opposizione a Cipriano, per non essere emarginati dalla fazione di Novaziano, che aveva già insediato un suo vescovo a Cartagine. Costoro fecero persino appello a Cornelio e Cipriano dovette scrivere al papa un lungo rapporto sugli eventi che stavano montando, ridicolizzando la loro presunzione. Questa ambasciata fu, naturalmente, infruttuosa ed il partito di Fortunato e di Felicissimo sembrò dissolversi.

Riguardo ai lapsi i concili avevano deciso che ogni caso avrebbe dovuto essere giudicato a sé e che i libellatici avrebbero dovuto essere riammessi in comunione dopo un variabile, ma lungo, tempo di penitenza, mentre coloro che realmente avevano sacrificato, dopo una vita di penitenza, avrebbero potuto ricevere l’Eucaristia in punto di morte. Ma a chiunque non si fosse pentito fino all’ora della malattia doveva essere del tutto rifiutata.

La decisione era dura. Tuttavia, una recrudescenza della persecuzione annunciata, narrava Cipriano, da numerose visioni, causò la convocazione di un altro concilio nell’estate del 252. In questa occasione si decise di riammettere immediatamente tutti coloro che stavano facendo la penitenza, affinché potessero essere fortificati dall’eucaristia. Durante la persecuzione di Gallo e Volusiano, la chiesa di Roma fu nuovamente messa alla prova, ma questa volta Cipriano poté congratularsi con il Papa per la fermezza dimostrata; l’intera chiesa di Roma, narrava, aveva confessato all’unanimità ed ancora una volta la fede predicata dagli Apostoli, veniva proclamata sul mondo intero (Ep. LX). Verso il giugno 253, Cornelio fu esiliato a Centumcellae (Civitavecchia). Qui trovò la morte e fu annoverato tra i martiri sia da Cipriano che dal resto della chiesa. Il suo successore, Lucio, immediatamente dopo la sua elezione fu inviato nello stesso luogo, ma presto gli fu permesso di tornare e Cipriano gli scrisse per congratularsi con lui. Quest’ultimo morì il 5 marzo 254. Il 12 dello stesso mese fu eletto Stefano.

Tertulliano, in precedenza, aveva molto argomentato sul fatto che gli eretici non avevano lo stesso Dio, lo stesso Cristo dei cattolici, quindi il loro battesimo era nullo. La Chiesa africana aveva adottato questa visione in occasione di un concilio svoltosi a Cartagine sotto un predecessore di Cipriano, Agrippino. Ad oriente era, inoltre, abitudine delle Chiese di Cilicia, Cappadocia e Galazia ribattezzare i montanisti che tornavano alla Chiesa. L’opinione di Cipriano sul battesimo impartito dagli eretici era questa: Non abluuntur illic homines, sed potius sordidantur, nec purgantur delicta sed immo cumulantur’. Non Deo nativitas illa sed diabolo filios generat[12]. Un certo vescovo Magno scrisse per chiedere se il battesimo dei novazianisti dovesse essere riconosciuto[13]. La risposta di Cipriano arrivò verso il 255: dovevano essere trattati alla stregua di tutti gli altri eretici. In seguito, Cipriano emanò una disposizione[14] nello stesso senso, probabilmente nella primavera del 255, indirizzata a 18 vescovi di Numidia. Questo fu, apparentemente, l’inizio di una nuova polemica. Sembra che i vescovi di Mauretania, in questo, non seguissero l’uso dell’Africa Proconsolare e della Numidia e che papa Stefano gli avesse inviato una lettera che approvava la loro fedeltà all’uso romano.

Il concilio cartaginese della primavera del 256 fu più numeroso del solito e 61 vescovi sottoscrissero la lettera conciliare in cui spiegavano al papa i motivi per cui ribattezzavano e argomentavano che questa era una faccenda in cui i vescovi erano liberi di decidere. Stefano non era d’accordo e pubblicò immediatamente un decreto molto perentorio in cui imponeva che non doveva essere fatta alcuna “innovazione”, ma doveva essere osservata la tradizione romana dell’imposizione delle mani sugli eretici convertiti in segno di assoluzione, a pena di scomunica. Questo provvedimento, evidentemente indirizzato ai vescovi africani, conteneva alcune severe censure su Cipriano stesso.

Nel settembre 256, si riunì a Cartagine un concilio ancora più grande. Tutti furono d’accordo con Cipriano; Stefano non fu neanche menzionato; al punto che alcuni studiosi hanno persino supposto che il concilio si fosse tenuto prima dell’arrivo del provvedimento di Stefano (Albrecht Ritschl, Grisar, Ernst, Bardenhewer). Cipriano non voleva assumersi tutta la responsabilità, così dichiarò che nessuno si era fatto vescovo dei vescovi e che tutti avrebbero dovuto esprimere il proprio parere. Il voto di ciascuno fu quindi espresso con un breve intervento. Il resoconto del concilio ci è giunto nella corrispondenza di Cipriano con il titolo di Sententiae Episcoporum. Ma, ai messaggeri inviati a Roma con questo documento, il papa rifiutò un’udienza e negò persino ospitalità. Cipriano, pertanto, cercò appoggio ad oriente. Scrisse, quindi, a Firmiliano di Cesarea inviandogli il trattato De Unitate e la corrispondenza sulla questione battesimale. La sua risposta giunse a metà novembre, in toni ancora più aspri di quelli di Cipriano. Dopo di ciò non si conosce altro sulla polemica.

Stefano morì il 27 agosto 257 e fu seguito da papa Sisto II che, certamente, era in comunione con Cipriano. Probabilmente, quando a Roma si accorsero che gran parte delle Chiese orientali adottavano tale pratica, la questione fu tacitamente accantonata. Si dovrebbe inoltre ricordare che, benché Stefano richiedesse obbedienza assoluta, abbia, apparentemente come Cipriano, considerato la questione come punto di disciplina.

Cipriano sosteneva la sua posizione partendo da una concezione errata dell’unità della chiesa e non dal principio elaborato in seguito da Agostino, secondo il quale, poiché Cristo è sempre l’agente principale, la validità del sacramento è indipendente dal ministro che lo impartisce: Ipse est qui baptizat. Tuttavia, questo concetto era implicito nell’insistenza di Stefano sulla forma corretta, “perché il battesimo è impartito in nome di Cristo” e “il suo effetto è dovuto alla maestà del suo nome”.

L’imposizione delle mani incoraggiata da Stefano era ripetutamente detto essere in poenitentiam, tuttavia Cipriano continuava a sostenere che il dono dello Spirito Santo tramite l’imposizione delle mani non portava alla rinascita, ma doveva essere successiva ad esso ed implicarla. Ad oriente, l’uso di ribattezzare gli eretici, forse, proveniva dal fatto che molti di loro non credevano nella Trinità e, probabilmente, non usavano neppure la giusta formula. La pratica sopravvisse per secoli, almeno nel caso di alcune eresie. Ma ad occidente il ribattezzare era considerato eresia e l’Africa rientrò nei ranghi poco dopo Cipriano. Agostino, Girolamo e Vincenzo di Lerino elogiarono Stefano per la fermezza dimostrata nella vicenda. Ma le lettere di Cipriano divennero lo strumento principale delle dissertazioni donatiste. Agostino, nel suo De Baptismo, le confutò una per una.

L’impero era circondato da orde di barbari che si riversavano dentro da tutte le direzioni. Il pericolo fu il segnale di partenza per una recrudescenza della persecuzione dell’imperatore Valeriano. Ad Alessandria, Dionisio fu mandato in esilio. Il 30 agosto 257, Cipriano fu condotto di fronte al proconsole Paterno nel suo secretarium. Il suo interrogatorio è tuttora esistente e forma la prima parte degli Acta proconsularia del suo martirio. Cipriano si proclamò cristiano e vescovo. Disse che serviva un solo Dio che pregava giorno e notte per tutti gli uomini e per la salvezza dell’imperatore. “Perseveri in questo?” gli chiese Paterno. “Una buona volontà che conosce Dio non può essere cambiata.” “Vuoi, quindi, andare in esilio a Curubis?” “Vado.” Paterno, allora, gli chiese i nomi degli altri presbiteri, ma Cipriano rispose che la delazione era proibita dalle leggi e che comunque non sarebbe stato difficile trovarli nelle loro città. A settembre si recò a Curubis, accompagnato da Ponzio. La città era isolata, ma Ponzio riportava che era assolata e piacevole, che vi si recavano molti visitatori e che i cittadini erano pieni di gentilezze. In un lungo brano narrava anche del sogno fatto da Cipriano la prima notte di esilio: era al cospetto del proconsole e veniva condannato a morte, ma, su sua richiesta, l’esecuzione veniva rimandata al giorno successivo. Si risvegliò nel terrore, ma una volta sveglio attese quel giorno, che giunse nell’anniversario del sogno, con calma. In Numidia le misure erano più severe. Cipriano scrisse a nove vescovi condannati ai lavori forzati, con la metà dei loro capelli tagliati e con cibo e vestiario insufficienti. Era ancora ricco ed era in grado di aiutarli. Le loro risposte si sono conservate ed esistono anche gli Atti autentici di parecchi martiri africani che patirono il martirio poco dopo Cipriano.

Nell’agosto 258, Cipriano seppe che papa Sisto II era stato messo a morte nelle catacombe il giorno 6 dello stesso mese, insieme a quattro dei suoi diaconi. In conseguenza del nuovo editto i vescovi, i presbiteri ed i diaconi avrebbero dovuto essere immediatamente messi a morte; i senatori, i cavalieri e gli altri notabili avrebbero dovuto perdere i loro beni e, qualora persistessero, avrebbero dovuto essere messi a morte; le matrone avrebbero dovuto essere esiliate; i Caesarianes (ufficiali del fiscus) avrebbero dovuto essere resi schiavi. Galerio Massimo, il successore di Paterno, fece tornare Cipriano a Cartagine e qui, nei suoi giardini, il vescovo attese la sentenza finale.

Molti personaggi in vista lo invitarono a scappare, ma il suo sogno non aveva previsto questa eventualità ed inoltre voleva soprattutto rimanere per esortare gli altri. Tuttavia, piuttosto che obbedire alla convocazione del proconsole ad Utica, si nascose. Aveva, infatti, dichiarato che per un vescovo era giusto morire nella propria città. Al ritorno di Galerio a Cartagine, Cipriano fu tradotto dai suoi giardini da due Principes in un carro, ma il proconsole era malato e Cipriano passò la notte nella casa di uno dei due principes in compagnia dei suoi amici. Di quanto accadde in seguito esiste una vaga descrizione di Ponzio e un dettagliato resoconto negli “Atti proconsolari”. La mattina del 14 settembre, per ordine delle autorità, una folla si riunì presso “la villa di Sesto”. Cipriano fu processato in quel luogo. Si rifiutò di sacrificare agli dei pagani e aggiunse che in questa materia non si doveva pensare alle conseguenze. Il proconsole lesse la sua condanna e la moltitudine pianse, “Lascia che siamo decapitati insieme a lui!”

Fu gettato a terra in una cavità circondata da alberi, su cui molte persone si erano arrampicate. Cipriano si tolse il mantello ed inginocchiatosi iniziò a pregare. Poi si tolse la dalmatica e la diede ai suoi diaconi. Rimase in piedi vestito della sola tunica in attesa del carnefice, al quale ordinò fossero dati 25 pezzi d’oro. I confratelli lanciarono panni e fazzoletti davanti a lui per assorbire il suo sangue. Egli si bendò gli occhi con l’aiuto di un presbitero e di un diacono, entrambi chiamati Giulio. Così avvenne il suo martirio. Per il resto del giorno il suo corpo fu esposto per soddisfare la curiosità dei pagani. Ma la notte, i confratelli, con candele e torce, lo portarono pregando al cimitero di Macrobius Candidianus nei sobborghi di Mapalia. Fu il primo vescovo di Cartagine ad ottenere la corona del martirio.

La sua lotta contro la corruzione e il suo carattere caritatevole e incline al buon senso facilitarono la sua santificazione, avvenuta pochi mesi dopo il suo decesso. Agostino d’Ippona lo ammirò profondamente sia sotto il profilo umano sia sotto quello teologico

Altri Santi che la Chiesa commemora il 16 settembre

Santa Eufemia, vergine e martire – A Calcedonia in Bitinia, nell’odierna Turchia, santa Eufemia, vergine e martire, che sotto l’imperatore Diocleziano e il proconsole Prisco, superati per Cristo molti supplizi, giunse con strenuo combattimento alla corona di gloria. (dal Martirologio)

Santi Abbondio e compagni, martiri – Sul monte Soratte lungo la via Flaminia nel Lazio, santi Abbondio e compagni, martiri. (dal Martirologio)

Santi Vittore, Felice, Alessandro e Pápia, martiri – A Roma sulla via Nomentana ad Capream nel cimitero Maggiore, santi Vittore, Felice, Alessandro e Pápia, martiri. (dal Martirologio)

San Prisco, vescovo e martire – A Nocera in Campania, san Prisco, vescovo e martire, che san Paolino da Nola celebrò in versi di lode. (dal Martirologio)

San Niniano, vescovo – A Withorn in Scozia, commemorazione di san Niniano, vescovo, che, di origine britannica, condusse il popolo dei Pitti alla verità della fede e costituì in questo luogo la sede episcopale. (dal Martirologio)

Santi martiri Rogello e Servidio (‘Abdallah) – A Córdova nell’Andalusia in Spagna, santi martiri Rogello, monaco anziano, e Servidio (‘Abdallah), giovane, che, giunti dall’Oriente, condannati a morte per aver coraggiosamente predicato Cristo di fronte ai Saraceni, furono, senza alcun loro cedimento, amputati di mani e piedi e morirono, infine, decapitati. (dal Martirologio)

Santa Ludmilla, martire – A Praga in Boemia, santa Ludmilla, martire, che, duchessa di Boemia, preposta all’educazione di suo nipote san Venceslao, nel cui animo cercò di far nascere l’amore per Cristo, fu strangolata per congiura della nuora Dragomira e di alcuni nobili pagani. (dal Martirologio)

Santa Edith, vergine – A Wilton in Inghilterra, santa Edith, vergine, che, figlia del re degli Angli, consacratasi a Dio in un monastero fin dalla tenera età, questo mondo, più che lasciarlo, non lo conobbe affatto. (dal Martirologio)

San Vitale, abate – A Savigny nella Normandia in Francia, san Vitale, abate, che, lasciati gli incarichi terreni, apprese a coltivare in luoghi deserti una più stretta osservanza e aggregò molti seguaci nel cenobio da lui stesso fondato. (dal Martirologio)

San Martino, detto Sacerdote, vescovo – Nel monastero di Huerta nella Castiglia in Spagna, transito di san Martino, detto Sacerdote, che, da abate cistercense ordinato vescovo di Sigüenza, rivolse ogni cura al rinnovamento morale del clero, prima di ritirarsi nuovamente nel suo monastero. (dal Martirologio)

San Giovanni Macías, religioso – A Lima in Perù, san Giovanni Macías, religioso dell’Ordine dei Predicatori, che svolse a lungo le più umili mansioni, curò con zelo poveri e malati e recitò assiduamente la preghiera del Rosario per le anime dei defunti. (dal Martirologio)

Sant’Andrea Kim Taegon, sacerdote e martire – Presso Sai-Nam-Hte in Corea, passione di sant’Andrea Kim Taegon, sacerdote e martire, che, dopo due anni trascorsi nell’operoso esercizio del ministero sacerdotale, subì per decapitazione un glorioso martirio, la cui memoria si celebra il 20 settembre. (dal Martirologio)

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