È morto Francesco: addio al Papa della tenerezza che ha rivoluzionato la Chiesa
La Chiesa cattolica piange il suo capo: Francesco è spirato nelle prime ore della mattinata di oggi 21 aprile, Lunedì dell’ottava di Pasqua

Città del Vaticano – Misericordia, tenerezza, prossimità. Basterebbero queste tre parole per sintetizzare il pontificato di Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, primo Papa della Chiesa cattolica venuto dal continente americano.
Il Pontefice è morto oggi, Lunedì dell’Ottava di Pasqua, alle ore 7.35, come annunciato dal cardinale Kevin Joseph Farrell, Camerlengo di Santa Romana Chiesa in diretta video da Casa Santa Marta, dove il Papa è spirato. “Carissimi fratelli e sorelle, con profondo dolore devo annunciare la morte di nostro Santo
Padre Francesco. Alle ore 7:35 di questa mattina il Vescovo di Roma, Francesco, è tornato alla casa del Padre. La sua vita tutta intera è stata dedicata al servizio del Signore e della Sua chiesa. Ci ha insegnato a vivere i valori del Vangelo con fedeltà, coraggio ed amore universale, in modo particolare a favore dei più poveri e emarginati. Con immensa gratitudine per il suo esempio di vero discepolo del Signore Gesù, raccomandiamo l’anima di Papa Francesco all’infinito amore misericordioso di Dio Uno e Trino”.
Ieri, durante la benedizione Urbi et Orbi di Pasqua, l’ultima apparizione pubblica: “Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!”, le poche parole pronunciate dal balcone della loggia centrale delle benedizioni della basilica vaticana. Poi la sorpresa: il giro di piazza San Pietro in papamobile, acclamato da 50mila fedeli (leggi qui).
Un regno relativamente lungo quello che si è appena concluso: dodici anni di “Buongiorno”, di “Non dimenticatevi di pregare per me”, di omaggi floreali alla Salus Populi Romani – divenutagli così cara da indicare la basilica di Santa Maria Maggiore come luogo prediletto per la sua tomba -, di parole ripetute all’infinito, ai fedeli di ogni nazione così come ai potenti del pianeta. Perché in fondo, i problemi veri, sono rimasti. Di questo Papa Francesco ne era più che consapevole e probabilmente è per questo che, come diceva qualcuno, “ripete sempre le stesse cose”.
Effettivamente, a una lettura superficiale potrebbe risultare che, ad esempio, il discorso con la “scomunica” ai venditori di armi pronunciato in Terra Santa nel maggio 2014 sia identico al messaggio Urbi et Orbi di Pasqua 2021 (e guardando lo scenario attuale quelle si potrebbero tranquillamente definire parole profetiche, ndr). Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare all’omelia pronunciata nel luglio 2013 a Lampedusa, meta del suo primo viaggio fuori Roma. Incentrata sui migranti e sull’indifferenza, sembra uguale a quella proferita a Lesbo nel 2016 e nel 2021. Eppure, ancora oggi, a distanza di anni da quel monito, stragi di migranti continuano a susseguirsi sulle coste europee, guerre e conflitti lacerano tutti i continenti.
In dodici anni, quello che è realmente cambiato, è il modo in cui percepiamo i gesti e parole: abituati oramai alla finzione, quando ci troviamo davanti a spontaneità e sincerità tremiamo. La pandemia da Covid ne è stato l’esempio più eclatante. Ognuno pensava di poter bastare a se stesso. Poi, d’improvviso, “fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città. Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa”. E, allo stesso tempo, “ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati”.
E se le parole, anche se pronunciate o tradotte in varie lingue, possono risultare difficili nella loro comprensione, più facile lo sono i gesti. E in effetti, questi dodici anni, più che per le omelie pronunciate a braccio, per i documenti più o meno accolti tra le polemiche, passeranno alla storia per i gesti, piccoli e grandi, che hanno contraddistinto la vita di un uomo che, pur indossando l’abito talare bianco, non ha mai tolto quello nero del prete, anzi, del gesuita, voglioso di stare “davanti, in mezzo e dietro” al suo gregge, come era solito dire quando incontrava i sacerdoti: “Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche ‘fiuto’. Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, o per ritrovare la strada smarrita”.
E se solo col tempo si sono capite alcune sue scelte, come l’abitare a Santa Marta invece che nel Palazzo Apostolico, per un mondo che vede l’Occidente in costante lotta con l’Oriente, meno facili risultano da capire le scelte di compiere Viaggi Apostolici (47 in tutto all’estero, ndr.) in nazioni dove quella cattolica è una comunità sì ridotta in termini numerici ma capace di incarnare in ogni ambito della propria esistenza i valori evangelici. Attitudini oramai perse in quelle nazioni che si considerano il centro del mondo e che, anzi, vedono nella religione un ostacolo. Ed ecco che Paesi come quelli dell’Asia, dell’Africa o dell’Oceania, spesso etichettati come non sviluppati o retrogradi, possono farci scuola.
Del pontificato che si è appena concluso, più che i follower guadagnati sugli account Instagram e X, più che i tanti record segnati, come eredità Papa Francesco ci ha lasciato quei gesti che caratterizzano la vita, non solo religiosa, di popoli lontani da noi. Guardando indietro nel tempo, come a sfogliare un album di foto, ecco riemergere allora le tante telefonate fatte ai parroci, o ai ragazzi colpiti da mali incurabili, o gli abbracci a genitori che hanno perso dei figli.
E ancora, la scomunica latae sententiae ai mafiosi, il documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi con l’imam di Al-Azhar, il dialogo con le altre religioni o con la comunità Lgbtq+, fino ad arrivare a veri e propri momenti storici, come la preghiera sotto il diluvio in una piazza San Pietro deserta per invocare la fine della pandemia, o il chinarsi a terra per baciare i piedi a un Capo di Stato africano.
Alla base di tutto, tenerezza e prossimità, sentimenti che, nell’idea del Pontefice argentino, erano alla base di quella che in Vaticano qualcuno ha ribattezzato la “rivoluzione bergogliana”. Una rivoluzione iniziata con la nomina di diverse donne ai vertici dei Dicasteri e degli uffici più importanti della Santa Sede che vede il suo apice nella riforma della Curia Romana. Una riforma non vista di buon occhio da molti, soprattutto all’interno delle Mura Leonine, quelle stesse mura che ora piangono il proprio re.
Da Buenos Aires al Soglio di Pietro
Il primo Papa giunto dalle Americhe nasce a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli.
Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù. Completa gli studi umanistici in Cile e nel 1963, tornato in Argentina, si laurea in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Come riporta l’Osservatore Roma, fra il 1964 e il 1965 è professore di letteratura e psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fé e nel 1966 insegna le stesse materie nel collegio del Salvatore a Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 studia teologia laureandosi sempre al collegio San Giuseppe.
Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Ramón José Castellano. Prosegue quindi la preparazione tra il 1970 e il 1971 in Spagna, e il 22 aprile 1973 emette la professione perpetua nei gesuiti. Di nuovo in Argentina, è maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio.
Il 31 luglio 1973 viene nominato provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Sei anni dopo riprende il lavoro nel campo universitario e, tra il 1980 e il 1986, è di nuovo rettore del collegio di San Giuseppe, oltre che parroco ancora a San Miguel. Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale; quindi i superiori lo inviano nel collegio del Salvatore a Buenos Aires e poi nella chiesa della Compagnia nella città di Cordoba, come direttore spirituale e confessore.
È il cardinale Quarracino a volerlo come suo stretto collaboratore a Buenos Aires. Così il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno riceve nella cattedrale l’ordinazione episcopale proprio dal cardinale. Come motto sceglie Miserando atque eligendo e nello stemma inserisce il cristogramma ihs, simbolo della Compagnia di Gesù.
È subito nominato vicario episcopale della zona Flores e il 21 dicembre 1993 diviene vicario generale. Nessuna sorpresa dunque quando, il 3 giugno 1997, è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede, il 28 febbraio 1998, come arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.
“La mia gente è povera e io sono uno di loro”, ha detto una volta per spiegare la scelta di abitare in un appartamento e di prepararsi la cena da solo. Ai suoi preti ha sempre raccomandato misericordia, coraggio e porte aperte. La cosa peggiore che possa accadere nella Chiesa, ha spiegato in alcune circostanze, “è quella che de Lubac chiama mondanità spirituale”, che significa “mettere al centro se stessi”.
E quando cita la giustizia sociale, invita a riprendere in mano il catechismo, i dieci comandamenti e le beatitudini. Nonostante il carattere schivo è divenuto un punto di riferimento per le sue prese di posizione durante la crisi economica che ha sconvolto il Paese nel 2001.
Nel Concistoro del 21 febbraio 2001, Giovanni Paolo II lo crea cardinale, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nell’ottobre 2001 è nominato relatore generale aggiunto alla decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata al ministero episcopale.
Intanto in America latina la sua figura diventa sempre più popolare. Nel 2002 declina la nomina a presidente della Conferenza episcopale argentina, ma tre anni dopo viene eletto e poi riconfermato per un altro triennio nel 2008. Intanto, nell’aprile 2005, partecipa al conclave in cui è eletto Benedetto XVI.
Come arcivescovo di Buenos Aires — tre milioni di abitanti — pensa a un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Quattro gli obiettivi principali: comunità aperte e fraterne; protagonismo di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della città; assistenza ai poveri e ai malati. Invita preti e laici a lavorare insieme.
Nel settembre 2009 lancia a livello nazionale la campagna di solidarietà per il bicentenario dell’indipendenza del Paese: duecento opere di carità da realizzare entro il 2016. E, in chiave continentale, nutre forti speranze sull’onda del messaggio della Conferenza di Aparecida nel 2007, fino a definirlo “l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina”. Poi il conclave del 2013, dove viene eletto come successore di Benedetto XVI. Il resto è storia.
Per iscriverti al nostro canale Telegram con solo le notizie di Papa & Vaticano, clicca su questo link
Seguici anche su Facebook, clicca su questo link