Roma, viaggio nei luoghi della Passione: Santa Croce in Gerusalemme 2/5

Inizialmente era un’ala del palazzo di Elena, madre dell’imperatore Costantino: Santa Croce oggi custodisce alcune tra le reliquie più preziose per la cristianità

Roma – Il nostro itinerario alla scoperta delle reliquie della Passione (leggi qui) custodite nell’Urbe continua passando per un luogo dalla storia curiosa, situato non lontano dal complesso del Laterano, prima tappa di questo viaggio tra arte e fede (leggi qui). Si tratta della basilica di Santa Croce in Gerusalemme: tra le più belle di Roma, custodisce – in una cappella situata dietro l’abside – alcune tra le reliquie più preziose per la cristianità: il legno della croce su cui morì Gesù, le spine della corona che venne messa sul capo di Cristo, uno dei chiodi, il titulus e anche il dito di San Tommaso, l’apostolo incredulo.

Santa Croce: da palazzo imperiale a basilica

L’odierna basilica era originariamente un’ala del palazzo scelto da Elena, madre dell’imperatore Costantino, come residenza. Il palazzo sorgeva a sua volta sui resti di una villa iniziata da Settimio Severo e terminata da Eliogabalo nel III secolo.

Privata di alcune sue parti dalla costruzione delle Mura Aureliane nel 272, Elena trasformò il complesso in basilica cristiana. O meglio, la grande aula rettangolare, originariamente coperta da un soffitto piano, illuminata da venti finestre collocate cinque su ogni lato e decorata con marmi pregiati nella parte inferiore, dove in epoca tardo imperiale il consiglio imperiale usava riunirsi, divenne una cappella non per onorare la memoria dei martiri, come era tradizione (le prime chiese di Roma, costruite da Costantino e dai suoi familiari servivano proprio a questo), ma esclusivamente per conservare una parte della Croce di Gesù, insieme ad altre reliquie della Passione che, secondo la tradizione, proprio Elena fece trasportare a Roma di ritorno dal suo viaggio in Terra Santa, nel 325.

Dalla Terra Santa però non arrivarono solo le reliquie: la basilica, infatti, è detta “in Gerusalemme” a causa della presenza di terra consacrata proveniente dal monte Calvario che fu posta alla base delle fondamenta. La terra, secondo la tradizione, giunse nell’Urbe trasportata sulle navi assieme alle stesse reliquie della Croce.

Per questo la chiesa fu chiamata, fin dal medioevo, semplicemente “Hierusalem”, e, per la devozione popolare, visitare questa basilica significava mettere piede nella stessa città santa di Gerusalemme.

Nel corso dei secoli venne ampliata e trasformata secondo gli stili architettonici delle varie epoche. Nel XII secolo divenne una chiesa romanica a tre navate, fu aggiunto il transetto, il chiostro (poi demolito) e il campanile in laterizio, alto 8 piani. Degli otto piani originari del campanile oggi però si possono vedere solo gli ultimi quattro (i primi quattro piani sono invece incorporati nel monastero).

Lungo tutto il corso del Medioevo la basilica, anche se situata ai margini dell’Urbe, fu meta di pellegrinaggi, particolarmente di tipo penitenziale, soprattutto durante la Quaresima. Il Venerdì Santo, i Papi stessi percorrevano a piedi scalzi, in segno di penitenza, la strada che congiunge la cattedrale di San Giovanni in Laterano (presso cui i papi risiedevano all’epoca) alla basilica di Santa Croce per venire ad adorare la reliquia della croce.

Dopo un lungo stato di totale abbandono (esclusi i restauri di Urbano V nel XIV secolo), nel 1743, quando la basilica e il monastero annesso furono completamente restaurati da Benedetto XIV. Il Pontefice commissionò i lavori agli architetti Pietro Passalacqua e Domenico Gregorini, ai quali dobbiamo la attuale facciata in travertino.

Nel 1798 la basilica fu saccheggiata dai soldati francesi durante l’invasione napoleonica, e furono rubati i preziosi reliquiari d’oro che custodivano i frammenti della Croce, il chiodo e le spine. Gli attuali reliquiari, risalenti al 1804, sono opera di Giuseppe Valadier.

Le reliquie della Santa Croce

Le reliquie della Passione furono inizialmente conservate e venerate (per più di un millennio) nella cappella semi sotterranea dedicata a Sant’Elena. Nel 1570, a causa dell’umidità dell’ambiente, furono trasportate in chiesa, in un luogo a cui si accedeva attraverso la clausura del monastero solo con speciali permessi. Una soluzione che non consentiva un flusso agevole dei pellegrini. Nel 1925, durante l’Anno Santo, si decise di costruire una cappella di più facile accesso: e così l’antica sacrestia venne trasformata in quello che Giovanni Paolo II ribattezzò il “Santuario della Croce”.

Un santuario pensato come un pellegrinaggio sul monte Calvario: dalla basilica si accede infatti a un ambiente con una grande scalinata che conduce al Vestibolo. Salendo i gradini si ripercorre la Passione con la Via Crucis, (14 sculture bronzee) alternate a citazioni tratte dal Nuovo Testamento e dalla liturgia del Venerdì Santo. Giunti al Vestibolo, tramite una cancellata, si accede alla cappella delle reliquie.

Decorata con marmi policromi, mosaici e vetrate artistiche, fu inaugurata nel 1930 e completata nel 1952. Tra il 2003 e il 2005 le reliquie sono state poste in un climabox per una migliore conservazione. In un vano adiacente vi è una copia, a grandezza naturale, della Sacra Sindone di Torino,

Sei, in tutto, i reliquiari esposti. Quello più grande, su cui l’occhio cade per primo, è quello della croce. Realizzato in oro, argento e pietre preziose, la forma suggerisce al fedele cosa contiene: conserva al suo interno quattro pezzi di legno (uno per ogni braccio) della croce su cui morì Cristo.

Legno visibile a tutti grazie alle parti in vetro del reliquiario, “sorvegliato” da due angeli d’argento che recano in mano la lancia e la spugna, chiaro richiamo ai simboli della Passione.

Nel corso dei secoli, diversi Pontefici hanno fatto prelevare diversi frammenti da questi legni per donarli a imperatori, personalità e santuari.

Alcuni esempi: Papa Gregorio magno inviò una particella in dono a Reccaredo, re dei Visigori; Leone X ne fece estrarre una parte per donarla a Francesco I, re di Francia; Urbano VII ne donò una parte alla basilica vaticana. In tempi più recenti fu Pio IX a farne prelevare altre particelle.

Nella parte superiore della teca, tre piccoli reliquari custodiscono altrettante meraviglie della fede cristiana: al centro vi sono i frammenti della grotta della Natività, del Santo Sepolcro, del patibolo del buon ladrone e della colonna della flagellazione; a sinistra la falange del dito di San Tommaso (quello che l’apostolo incredulo infilò nel costato del Cristo risorto); a destra due spine provenienti dalla corona che venne messa sul capo di Gesù durante la sua Passione.

Va però fatta una precisazione: la tradizione non attribuisce a Sant’Elena il ritrovamento della corona di spine. Di certo sappiamo che questa reliquia era venerata a Costantinopoli già ai tempi dell’imperatore Giustiniano. Durante il 1200 giunse in Europa: la ebbero prima i veneziani, poi san Luigi, re di Francia, che nel 1238 la pose nella cappella del palazzo reale. Alla fine del 1700 passò alla chiesa abbaziale di San Diogi e nel 1806 giunse nella cattedrale parigina di Notre Dame, dove è conservata tuttora. Quella che si può vedere a Parigi, tuttavia, è priva di spine poiché tutte staccate e sparse in diverse chiese del mondo, tra cui, per l’appunto, anche Santa Croce in Gerusalemme a Roma.

Molti potrebbero però chiedersi perché riunire anche i frammenti della grotta della natività assieme a quelli del sepolcro. Tutte queste reliquie sono raccolte insieme perché esse, per la Chiesa cattolica, sono preziosi strumenti di catechesi, segni di un fatto certo, la cui venerazione può aiutare la meditazione sulle sofferenze che ricordano riproponendo così il valore salvifico della croce.

Nella parte inferiore della teca, invece, vi sono i reliquari che custodiscono uno dei chiodi e il cosiddetto Titulus Crucis, ovvero il famoso cartello che venne messo sopra il capo di Cristo durante la crocifissione con la scritta Inri, che poi altro non è che un’abbreviazione ma ci arriveremo tra un attimo.

Prima una menzione particolare va al reliquario del chiodo. Molti storici contemporanei di Sant’Elena narrano che durante il suo viaggio a Gerusalemme, la madre dell’imperatore trovò anche i chiodi con i quali fu crocifisso Gesù. Uno lo fece mettere nel freno del cavallo del figlio, un altro nella corona imperiale. Il terzo, infine, lo portò con sé a Roma, dove è annoverato tra le reliquie della basilica fin dall’inizio.

Più avvincente la storia del Titulus. la tavoletta di legno che riportava l’imputazione formulata da Pilato nei confronti di Gesù in tre lingue (ebraico, greco e latino). Di questa reliquia, dopo 700 anni, se ne perde ogni traccia. Riapparirà il 1 febbraio del 1492, quando fu casualmente ritrovata durante dei lavori di restauro in basilica. Chiusa in una cassetta con il sigillo del cardinal Caccianemici (titolare della basilica e poi Papa col nome di Lucio II) era stata murata nell’arco che separa il transetto dalla navata centrale.

Nulla di strano, se si considera che in passato le reliquie venivano spesso messe in alto all’interno delle chiese per preservarle dai furti. Ma nel caso del titolo se ne era persa memoria, complice anche la caduta dal muro delle lettere che ne indicavano la collocazione.

La notizia del ritrovamento fece grande scalpore all’epoca, anche perché coincise con la riconquista di Granada, ultima roccaforte in occidente degli arabi. Papa Alessandro VI ne autenticò il ritrovamento con una bolla. Sul fatto che sia l’originale cartiglio messo sulla croce di Cristo, però, gli studiosi sono divisi.

Il Titulus reca effettivamente una parte dell’iscrizione nelle tre lingue (ebraico, greco e latino). I testi in latino e greco sono scritti da destra a sinistra, come per l’ebraico (come era usanza dell’epoca in quelle regioni dell’impero). Nel testo latino è riportata la versione “Nazarinus” anziché “Nazarenus” poiché nel I secolo d.C. era la forma usata. Il testo, tuttavia, non sembra corrispondere esattamente a nessuno di quelli dei quattro vangeli canonici. Piccole anomalie considerate da alcuni indizi di autenticità, in base al ragionamento che difficilmente un falsario le avrebbe introdotte.

Le fotografie dell’iscrizione, inoltre, vennero fatte esaminare da diversi paleografi i quali condussero un’indagine paleografica comparativa. Le lettere risultarono perfettamente compatibili con quelle del I secolo, confermando, quindi, la possibilità che la reliquia fosse l’originale o almeno una copia fedele dell’originale risalente allo stesso periodo.

Resta infine il problema se tale copia o presunto originale possa essere quello utilizzato sul monte Calvario. Per chiarire la questione la Santa Sede autorizzò il prelievo di campioni del legno che vennero datati attraverso l’utilizzo del metodo del carbonio-14. I risultati, pubblicati nel 2002, determinarono che il legno risalirebbe all’intervallo tra gli anni 980 e 1150.

Nel 2003 un nuovo studio, condotto da Maria Luisa Rigato, rivelò altri aspetti: la reliquia, già venerata a Gerusalemme, giunse a Roma non con Sant’Elena ma successivamente, tra il 540 e 614. L’iscrizione, poi, analizzata e studiata in tutte le sue parti con ulteriori analisi paleografiche ed esegetiche, sarebbe perfettamente compatibile con i dati dei vangeli, in particolare quello di Giovanni: “Gesù [di] Nazara Vostro Re”, tradotta con giustificate varianti in latino e greco.

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