Mentre l’Europa si riscopre alleata USA il sud-est asiatico scivola via
Con la firma di un nuovo accordo sulla sicurezza tra le Isole Salomone e la Cina, l’elezione del figlio dell’ex dittatore delle Filippine Marcos junior e l’aperta pubblicizzazione dell’IPEF, la competizione per la posizione di maggior influenza nei mari dell’Asia è emersa prepotentemente nel dibattito pubblico. Questo dopo 10/15 anni di attività cinesi per assorbire gradualmente buona parte dell’indo-pacifico.
All’alba di una nuova Europa, con il conflitto in Ucraina tutt’altro che concluso, Washington si vedrà quindi costretta a soppesare con molta attenzione in quali continenti investire il suo capitale e quali alleanze favorire per garantire la sicurezza del Nord e Centro America, ostacolando così la nascita di uno sfidante su uno o entrambi gli oceani che abbracciano le sue coste.
Una realtà meno familiare di quanto vorremmo
Non è la prima volta che una potenza emerge dai territori del bacino dello Yangtze/Fiume Giallo (Huang He) o dalle isole del Giappone per poi espandersi sull’onda di una spinta demografica.
In questo caso stiamo infatti osservando il terzo esempio storico dopo quello che gli Europei chiamano gergalmente ancora oggi “l’invasione dei mongoli”, e l’espansione giapponese della prima e seconda guerra mondiale, successiva alle due guerre dell’oppio, alla decadenza dei costumi ed al boom demografico ed economico dell’inizio del 900.
Diversamente dai precedenti due però la strategia è di conquista tramite infiltrazione.
Con il pesante degrado generalizzato di una struttura della popolazione associata alle gerarchie militari ed aderente a ideali di omogeneità culturale, ed in alcuni casi biologica, etnie “formicaio” come quella cinese tendono automaticamente a visualizzare i modelli alternativi come intrinsecamente “deboli” e quindi indegni di sopravvivere.
Sulla base di questi presupposti viene spontaneo un parallelo con la Germania di Hitler calzante per alcuni aspetti e sballato per altri.
Se infatti la malevolenza che guida le azioni della Cina di oggi è simile, l’obiettivo di Pechino non è quello di mantenere la “purezza” dell’etnia Han tramite il soggiogamento armato (tranne che per Taiwan) ma bensì quello di usare l’enorme popolazione cinese come un cavallo di troia da inserire nell’economia e nella società di paesi esteri per poi modificarne artificialmente la struttura rendendola dipendente economicamente dalla madrepatria.
Questo tipo di strategia è derivante da due fattori combinati: le difficoltà del politburo a gestire la popolazione, in realtà fortemente eterogenea, e la necessità di garantire una sfera commerciale sostenibile tramite la “diplomazia della trappola del debito” (DTD) prima che il numero dei pensionati superi la soglia di sostenibilità.
Entrando più nello specifico la strategia regionale di Pechino è caratterizzata da un atteggiamento di mal celata superiorità nei confronti delle isole dell’Indo Pacifico ed uno di finto rispetto nei confronti dei paesi europei (nello specifico i cosiddetti 16+1 ovvero una fetta importante della sfera economica tedesca e dell’Europa dell’Est).
La reale predisposizione dei cinesi si traduce nell’offerta di accordi commerciali per la costruzione di infrastrutture e compravendita di beni per le isole, ed infinti tentativi di investimento diretto di capitale (anche tramite joint ventures, ovvero aziende bilingue con personale da entrambe le nazioni coinvolte), truffe ed altre forme di spionaggio industriale e IP theft per l’Europa. Con alcune eccezioni entrambe le realtà si traducono comunque progressivamente in una trasformazione delle economie locali in ecosistemi plasmati dalle elite cinesi.
Le Filippine e le Isole Salomone sono un perfetto esempio con la costruzione selvaggia di casinò iniziata intorno al 2010 nelle prime, insieme ad altre attività di gambling offshore per sostituire Macao ed interrompere la fuga di capitale, e l’acquisto di molte delle attività di rivendita di beni di prima necessità come gli alimentari gestiti poi da piccole famiglie cinesi provenienti dalle zone più indigenti del territorio del Dragone.
In entrambi i casi appena citati la cruda realtà è una: le elite cinesi hanno manipolato, corrotto o convinto la classe dirigente locale ad accettare il contesto come inevitabile pur di mantenere in piedi il rapporto, ottenendo così un’influenza di carattere politico-economico grazie ai numeri della loro forza lavoro ed alla miopia della controparte.
Il caso delle isole dell’Indo-Pacifico probabilmente non si rivelerà molto diverso ma, se in un primo momento Pechino ha potuto muoversi liberamente godendo di tutti i vantaggi dell’inconsapevolezza del resto del mondo e dell’ignavia dell’Occidente, varie sotto regioni dell’Oceania diventeranno scogli su cui schiantarsi (quasi l’interezza della Melanesia, probabilmente tutta la Polinesia e l’Australasia; alcuni grossi arcipelaghi della Micronesia potrebbero avvicinarsi alla Cina con le Kiribati già in quella direzione ma la probabilità di una militarizzazione sembra per ora molto bassa, se non altro perchè gli USA non lo permetterebbero).
Ridisegnare le mappe geografiche
Consapevole del rapido peggioramento delle condizioni economiche interne alla Cina, il politburo ha silenziosamente spinto per accordi sulla sicurezza con molti paesi dell’Indo-Pacifico già a metà 2021, forte dell’inconsapevolezza occidentale, dell’enorme peso commerciale in tutta l’Asia e dell’assenza di indagini da parte dell’OMS riguardo la pandemia.
Impugnata per l’ennesima volta l’artificiale apatia del mondo, Pechino ha tentato di capitalizzare con una fallimentare spinta sulla quasi totalità degli arcipelaghi dell’Oceania per un accordo unico di sicurezza congiunta, che Australia, Giappone e Stati Uniti sono riusciti ad ostacolare appena in tempo grazie anche alla pessima reputazione cinese.
Tuttavia, questa è una vittoria temporanea ed anche di Pirro.
Con le conseguenze dell’innalzamento delle acque già concrete per molte delle isole dell’Oceania gli aiuti dell’alleanza che supporta l’accordo commerciale IPEF (USA, Australia, Giappone, forse India e Sud Corea) si sono già rivelati inadeguati. È probabile che un ulteriore serie di investimenti, se oculatamente distribuiti ed alloccata correttamente, finisca per garantire la vicinanza delle isole più strategicamente importanti per la sicurezza immediata di Giappone ed Australia, per quanto tutto questo sia ben lontano da una panacea.
Infatti, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, la prospettiva appare una di invasione diretta tramite migrazione economica, spinta spesso dallo stesso politburo, con l’obiettivo di usare la popolazione cinese come un organismo esterno tramite le tattiche dello “United Front” o “Fronte Unito”.
Senza entrare eccessivamente nello specifico riguardo ad un’organizzazione enorme ed estremamente potente il “Fronte Unito” è un organismo nato dopo la salita al potere di Mao Tse-Tung nel 1949 inizialmente pensato per inglobare le istanze politiche di tutta la Cina e monitorare e denunciare qualsiasi deviazione. Per quanto simile in mansioni a molte delle attività condotte da vari rami del NKVD/KGB in Russia, il “Fronte Unito” finì per tramutarsi in uno degli strumenti di influenza all’estero più rilevanti per Pechino soltanto negli anni 90 con l’intesa definitiva tra Clinton e Deng Xiaoping suggellato dal NAFTA.
Definita da alcuni attenti osservatori come “Chimerica”, l’ulteriore integrazione post anni 70 dell’economia cinese con quella americana (unita all’ingresso nella WTO) è stata probabilmente l’errore strategico più grave che l’Occidente abbia mai commesso negli ultimi due secoli.
Questo ha dato al politburo la possibilità di espandere le sue attività all’interno di territori esteri passando per l’ingresso principale e sfruttando tutte le conseguenze della deindustrializzazione per infiltrarsi anche in Europa e Stati Uniti.
In particolare, il sistema legale internazionale è stato un utilissimo trampolino di lancio per avviare l’iniziativa conosciuta in Italia come “Vie della Seta” (B&R I) stipulando accordi per la costruzione di infrastrutture che rimanessero però esterni al consenso del Club di Parigi.
Con il principale sistema di rinegoziazione dei debiti per i mercati emergenti volutamente ostracizzato, da non confondere con il rifinanziamento che può essere eseguito tramite l’FMI/IMF o la Banca Mondiale, Pechino si è assicurata che la sua diplomazia della trappola del debito (DTD) sia estremamente difficile da invertire garantendosi il controllo di importanti infrastrutture. Inserendo spesso nel mix anche una notevole presenza di cittadini cinesi pronti ad aprire attività più o meno grandi ma con personale interamente, o quasi, di etnia Han, la seconda parte della strategia di infiltrazione è stata completata. In questo modo Pechino si è assicurata la presenza di aziende importanti accompagnate da un substrato di imprese minori che, con la scusa di potenziare la crescita economica di un paese, prenderanno il sopravvento assorbendo la maggioranza delle attività tramite la digitalizzazione in un’economia pesantemente colpita dal crollo della globalizzazione e dalla ritirata dell’Occidente. Infine, data la dimensione di corruzione tipica dei paesi africani, molta della futura classe dirigente del Corno d’Africa finirà per parlare mandarino ed essere fondamentalmente cinese, grazie ad una serie di matrimoni combinati.
È improbabile che una situazione del genere si concretizzi nella maggioranza dell’Oceania per via del tipo di cultura territoriale, l’impopolarità sempre più generalizzata della Cina ed il sabotaggio delle varie coalizioni della regione. Tuttavia questo non eviterà che vari arcipelaghi finiscano per dover scegliere tra l’essere ingoiati dal mare o l’accettare i finanziamenti di Pechino diventando dei vassalli.
Comando e controllo
Con l’influenza garantita dallo United Front, dagli investimenti diretti in molti dei paesi che commerciano direttamente con l’Oceania e con una selezione limitata di alternative insufficiente a soddisfare le necessità (inclusi anche aiuti post pandemici) l’evoluzione della situazione sembrerebbe quasi scontata.
Eppure non è così.
Per quanto il fallimento dell’IPEF sia l’ennesimo disastro causato dall’amministrazione Biden, il decadimento dell’influenza anglosassone nel Pacifico è stato ampiamente discusso a Washington nell’ultimo decennio insieme a varie strategie per contrastarlo.
Consapevoli di come le continue invasioni dei pescherecci e della guardia costiera cinese distruggano lo stesso ecosistema che gli abitanti dell’Oceania vorrebbero proteggere, gli Americani hanno progettato una serie di sistemi di monitoraggio satellitare per garantire il rispetto delle ZEE e delle zone di pescaggio.
Questo insieme ad una serie di progetti classificati e non garantirà sistemi di sicurezza degni delle ingerenze cinese e della fusione tecnologica civile/militare su cui il politburo ha posto estrema enfasi incarnando l’essenza stessa del “lupo travestito da agnello”.
L’enforcement non è ancora in funzione ma in prospettiva l’iniziativa sarà estremamente importante.
Pechino potrà imporsi economicamente sulla regione in una finestra di tempo che va dai 2 ai 7 anni ma negare l’accesso alle sue flotte per via delle continue violazioni del diritto internazionale farà si che molta dell’informale marina cinese non possa avere accesso a territori sensibili.
A meno che questi non vogliano colare a picco.
Proprio in quest’ottica la reintegrazione di Francia e Regno Unito (con la zoppicante Germania all’inseguimento) nelle operazioni FONOP (Freedom Of Navigation Operations) è indicativa di un ombrello di sicurezza che coinvolgerà anche Vietnam, Filippine, Giappone, Sud Corea, Australia, India, Indonesia… Se implementato correttamente (non come l’IPEF) il sistema garantirà alle varie coalizioni anticinesi un’impalcatura su cui appoggiarsi o ricadere per negare alla Cina la possibilità di militarizzare atolli o creare isole a proprio uso e consumo, impedendo l’invasione fisica dei territori più sensibili per la sicurezza dei paesi citati ed in particolare di Giappone ed Australia.
Cicatrici profonde
L’IPEF è inevitabilmente almeno 14 anni in ritardo. Il fallimento strategico e diplomatico USA è in realtà riconosciuto all’interno di molte delle sale di Washington ma pochi hanno anticipato la rapidità con cui Pechino avrebbe cercato di espandersi a danno dei paesi nel resto del sud-est asiatico, dell’Indo-Pacifico e dell’Oceania.
Alcuni esperti australiani erano tra i pochi a comprendere veramente le posizioni dell’Oceania ma gli avvertimenti sono stati in gran parte ignorati dalle tre amministrazioni USA successive alla crisi del 2008.
Un inziale tentativo di concretizzare la “virata verso l’Asia” (“Pivot to Asia”) di Obama del 2011 arrivò proprio nel 2017/18 con l’amministrazione Trump per poi essere assassinato con l’arrivo di Biden e la guerra in Ucraina.
Gli aiuti e le collaborazioni che i vari alleati USA (Giappone, Australia, Indonesia, forse India e Sud Corea) riusciranno a mettere in piedi con le facilitazioni di Washington saranno probabilmente il miglior trampolino di lancio per un recupero di territori più piccoli, limitati per estensione rispetto alla regione nel suo insieme (Polinesia, Melanesia, Micronesia, Australasia in Oceania e Indonesia, Malesia, Vietnam, Cambogia, Laos, Filippine, Vietnam, Myanmar, Brunei nel sud-est asiatico).
L’infiltrazione economica cinese nell’Oceania si rivelerà meno duratura del Corno d’Africa aprendo ad una vera prospettiva di recupero grazie anche alla probabile ripresa nella crescita degli Stati Uniti ed al ritiro dell’influenza di Pechino a causa del rapido deterioramento della sua economia.
In tutto questo Francia e Regno Unito si riveleranno partner importanti a dispetto di un continente europeo in pesante decadimento demografico, economico e con una frammentazione sempre più estesa.
La probabile deindustrializzazione di vari paesi sotto l’ombrello industriale tedesco causata anche dalle operazioni ostili di Russia, Turchia ed Iran distruggerà il panorama attuale, ma sarà probabilmente meno pesante delle attuali ingerenze cinesi e delle successive guerre di conquista di Pechino.
Tuttavia, anche se le seconde non dovessero palesarsi per via del successo delle politiche di chiusura e semi-autarchia di Xi Jinping la crisi finanziaria ed economica della Cina, di cui stiamo già avendo i primi segnali, lascerà pesanti vuoti in tutta l’Asia.
Le difficoltà di coordinamento con l’India nel contesto della QUAD (alleanza di USA, Australia, Giappone ed India) potrebbero non essere risolte a causa del palese ulteriore coinvolgimento della Russia nel complesso militare-industriale di Nuova Delhi ma anche qui la situazione non è irrisolvibile.
Questione completamente diversa da quella appena menzionata è la situazione delle Filippine che non godono di uno spazio geostrategico altrettanto ampio, di un’economia sostenibile anche in caso di sottosviluppo e sono già in via di assorbimento da parte della Cina.
Come già menzionato più su il paese è stato fortemente influenzato dalla creazione di enormi casinò off-shore dove un numero enorme di turisti provenienti dall’entroterra e dalla costa cinese sosta periodicamente spendendo enormi somme in un circuito controllato (diversamente da quello dei casinò di Macao famosi per aver facilitato schemi per la fuga di capitale).
Con uno dei settori dell’economia più importanti in mano ad imprenditori legati al politburo e molti delle attività minori gestite da famiglie cinesi la prospettiva per la capitale Manila si sta rivelando una di isolamento da Washington e di scelta tra due mali.
La cooperazione di lunga data con i militari statunitensi, già incrinata a causa dell’inazione USA riguardo le Isole Spratly, sarà colpita pesantemente dall’intesa del nuovo presidente con Pechino portando probabilmente ad un temporaneo allontanamento di difficile risoluzione.
Conseguentemente Washington, Tokyo, Canberra, Giacarta, Londra e Parigi dovranno trovare un nuovo equilibrio da sole, consapevoli riguardo i fondi, importanti ma limitati, che Australia e Giappone potranno schierare per ottenere l’incardinamento dei paesi locali in un’impalcatura filo-occidentale.
Prospettive future
Il sud-est asiatico è destinato ad essere colpito molto più pesantemente del continente europeo dalle politiche cinesi.
La dimensione complessa che caratterizza l’Europa (demografia anziana, difficile sostenibilità del welfare state, burocrazia bizantina, tendenze aggressive russe, collasso avanzato del Sahel e del Nord Africa, fuga di capitale, rallentamento di innovazione e sviluppo) non è comparabile a quello che si palesa davanti a molti dei paesi del sud-est asiatico e del continente asiatico (demografie anziane in molti dei paesi cardine particolarmente le tigri asiatiche, pesante aggressività cinese, futuro collasso economico e commerciale della Cina, difficile riallocazione delle attività delocalizzate senza una superpotenza sostitutiva agli USA che possa gestire la sicurezza, assenza di istituzioni culturalmente solide in molti paesi e insostenibilità geografica, assoluta dipendenza diretta dai commerci della globalizzazione nella stragrande maggioranza dei casi).