Instabilità nel Sahel tra Francia e Russia

Tutto è cominciato nel lontano 2012, quando l’area del Sahel sembrava, almeno in quel momento, complessivamente stabile, pacifica e saldamente in mano ai Francesi.

Tra gennaio ed Aprile la richiesta di indipendenza dei Tuareg nel nord del Mali (armati in precedenza dal Colonnello Muammar Gaddafi durante la guerra civile libica del 2011), seguita dalla loro ribellione e dallo scontro contro le forze governative, crea instabilità nel paese. Queste proteste cittadine, rivolte contro la corruzione e la stagnazione economica del paese, causata dalla guida del presidente Amadou Touré, segnano una svolta e forse un punto di non ritorno.

Ad un mese dalle elezioni, il 22 Marzo 2012, i militari, non contenti con la gestione di questa situazione conflittuale, rovesciano il governo. La caduta di Bamako (capitale del Mali) rappresenta l’inizio di un effetto domino di instabilità che porterà nell’arco di un decennio ad un crescendo di instabilità nella regione. Tra colpi di stato e l’emergere di gruppi terroristici di matrice islamica radicale, la regione del Sahel è piombata nel Caos.

2012 Mali2014 Burkina Faso2014 Gambia2015 Burkina Faso
2019 Sudan2020 Mali2021 Niger2021 Mali
2021 Sudan2021 Guinea 2022 Burkina Faso2022 Guinea Bissau
Colpi di stato nel Sahel.

Oltre a rappresentare un problema per la stabilità della regione (attacchi a villaggi e medie città con uccisione indiscriminata di civili) esercitando una forte pressione sui governi locali, la presenza di questi gruppi ha messo in moto e “gestito” il transito di un’enorme massa di profughi e sfollati su una delle principali rotte di migrazione che porta, passando per la Libia, l’Algeria ed il Marocco, direttamente in Europa. Si stima che una delle fonti principali di introiti di queste bande di islamisti sia proprio la gestione delle rotte migratorie ed il traffico di esseri umani con conseguente richiesta di riscatti, oltre alla gestione di miniere, del traffico di armi e di droga.

Sulla base di quanto detto, si spiega l’intervento dei francesi che il 1 agosto 2014 avviano l’operazione Barkhane, un’operazione concepita come argine all’avanzata dei gruppi legati ad Al Qaeda ed alla branca dell’Isis nota come “Islamic state in the greater Sahara” (ISGS).

L’importanza di impedire un insediamento stabile di gruppi estremisti, per evitare situazioni spiacevoli come quelle dell’Isis in Iraq e Siria, è tale che nella zona “sono attualmente attive” 5 missioni multinazionali. 

Morti nella zona del Sahel dagli attacchi del 2019.

Le missioni nel Sahel

Oltre all’operazione Barkhane guidata dai francesi, con più di 5mila uomini sul campo supportati da inglesi e danesi, erano (vedremo a breve perchè parliamo al passato) presenti:

  • La task-force europea Takuba (che vedeva anche la partecipazione dell’Italia con circa 200 soldati);
  • EUTM (European Union Training Mission, non esecutiva in quanto si occupava solo di addestramento delle forze del Mali);
  • MINUSMA (Missione Multidimensionale di Stabilizzazione Integrata delle Nazioni Unite in Mali), operazione di pacekeeping ONU che vedeva l’impiego di quasi 12mila uomini e rappresentava una delle iniziative con più morti.;
  • FC-G5S (Forze Congiunte del G5 Sahel) con circa cinquemila uomini autorizzati, da un mandato delle Nazioni Unite, a svolgere operazioni di antiterrorismo, lotta al traffico di esseri umani e lotta alla criminalità organizzata transnazionale.

Il rapporto fra le missioni non sempre è semplicissimo perché hanno spesso obiettivi parzialmente diversi.

Il ruolo della Francia

Il particolare attivismo della Francia nella zona è volto ovviamente alla preservazione dei suoi storici interessi geoeconomici e geostrategici nella regione.

Il che si traduce concretamente nel tentativo di mantenere direttamente ed indirettamente un controllo sulle ex colonie (anche tramite il famoso Franco CFA) e sull’estrazione di risorse come oro ed uranio, quest’ultimo necessario per alimentare le circa 50 centrali nucleari francesi, quindi elemento fondamentale nella politica di indipendenza energetica della Francia.  

Probabilmente l’aspetto più importante riguarda la gestione della principale rotta migratoria africana. Controllare il Sahel significa avere la chiave della gestione dei flussi di migranti e profughi diretti in Europa. L’UE non può permettersi di perdere questa zona fondamentale, non dopo aver eliminato Gaddafi, realizzando troppo tardi quale era il suo ruolo fondamentale nella gestione di tali flussi. 

Controllare questa zona è quindi fondamentale per l’Unione Europea, soprattutto in una pianificazione di medio/lungo termine che vede, almeno stando alle stime attuali, raddoppiare la popolazione africana entro il 2050. Il rischio concreto è che, se la zona del Sahel dovesse cedere alle forze islamiste ed insurrezionali, l’Europa, già messa a dura prova dalle precedenti ondate migratorie, sarebbe sottoposta a pressioni insostenibili, forse tali da causare fratture con conseguente divisione in blocchi o, nel peggiore degli scenari, un’implosione. 

Perdere il Sahel potrebbe rappresentare, per l’Unione, un equivalente alle invasioni germaniche dell’Impero Romano, con decine di milioni di migranti che premono sui confini europei per entrarvi. Controllare queste rotte diventa quindi una questione centrale, riguardante la sicurezza interna francese (direi anche italiana) ed europea.

Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda l’enorme traffico illegale di armi, persone (si parla di veri e propri mercati di schiavi, in particolare in Libia) e soprattutto sostanze stupefacenti che, passando dal Sahel, giungono attraverso il Marocco, l’Algeria e la Libia, in Europa. In questo caso il rischio è di veder inondato il mercato europeo con una quantità incontrollabile di sostanze stupefacenti. In questo caso sono evidenti i risvolti negativi sulla salute e sull’ordine pubblico, parallelamente al rischio di veder aumentate e rafforzate le strutture criminali europee (pensiamo alle situazioni nelle Banlieue francesi, anche se di esempi in Europa ce ne sono tanti).

Le vie delle sostanze stupefacenti che partono dall’Africa.

Dopo questo breve quadro introduttivo, capiamo bene l’importanza della regione del Sahel per la sicurezza e stabilità dell’Europa. Motivo per cui la Francia, che per prima si è imbarcata nella missione di pacificazione della zona, ha chiesto aiuto ai partner europei ed internazionali. È all’interno di questo quadro che si spiega il preoccupante attivismo della Russia nella regione.

La Russia, uno scomodo intruso

La Russia, che già durante l’Unione Sovietica era in stretti rapporti con molti paesi africani, si è imbarcata in questi ultimi anni in una serie di progetti geopolitici volti ad aumentare la sua capacità di proiezione di forza, di difesa, di disturbo e più in generale la sua influenza nell’Eurasia, nel Medio Oriente ed in Africa (da non dimenticare anche l’America Latina con l’influenza su Cuba e, forse in un futuro prossimo, il dispiegamento di forze ed armamenti russi a Nicaragua, nel “cortile statunitense”). 

Partendo dalla Siria e passando per la Libia, l’Algeria (storico “partner”) e la Repubblica Centroafricana, la Russia è arrivata in Mali. Tuttavia ci è arrivata in modo informale, tramite uno dei suoi migliori tentacoli: il gruppo Wagner.

Questo gruppo nasce nel 2014 per mano di Dmitriy Utkin, ex colonnello degli Spetnaz (forze speciali russe) che si ritiene essere molto vicino a Putin. Insieme all’oligarca Evgheny Prigozhin (il famoso “cuoco” di Putin), uno degli uomini più ricchi della Russia (coinvolto, secondo i federali americani, anche nelle interferenze alle elezioni del 2016), hanno messo in piedi una delle più grandi compagnie militari private, di fatto un esercito di mercenari.

Sono stati definiti da Amy Mackinnon su Foreign Policy come “una rete di affaristi e gruppi di mercenari uniti da interessi economici […] e coinvolti in varie attività, tra cui la soppressione di insurrezioni e proteste pro-democrazia, la diffusione di disinformazione, lo sfruttamento di miniere di oro e diamanti, e naturalmente le operazioni militari.

L’arrivo del gruppo Wagner in Mali coincide con un progressivo ma sempre più inevitabile allontanamento del Mali dalla Francia (di cui ha cacciato l’ambasciatore), dall’Unione Europea, dalla comunità internazionale e dai propri partner regionali. Indicativa al riguardo è la recente uscita del Mali dal G5 Sahel, programma congiunto di collaborazione tra Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger e Ciad .

I due colpi di stato condotti dai militari nell’agosto 2020 e nel maggio 2021 hanno definitivamente isolato il Mali che si è ritrovato “costretto” a chiedere aiuto ai Russi.

Probabilmente il quadro non è chiaro nè completo se non si considera un aspetto fondamentale, ossia che, quasi sicuramente, il colpo di stato del 2020 è stato organizzato con l’aiuto dei Russi. I colonnelli dell’esercito Malick Diaw e Sadio Camara (attuale Ministro della Difesa), che hanno di fatto guidato il colpo di stato, sono infatti tornati dalla Russia pochi giorni prima dell’inizio del golpe. I due hanno passato mesi a prepararsi in Russia, tessendo a distanza, con l’aiuto di consiglieri militari russi, tutta la rete di contatti necessaria per rovesciare il governo di Keita.

Un futuro incerto

La situazione è quindi estremamente complicata. Anzitutto si sta combattendo una battaglia di comunicazione che, purtroppo, l’Occidente e la Francia in particolare stanno perdendo. In Mali, come anche in Burkina Faso, Niger e Ciad e molte altre nazioni dell’Africa occidentale, le persone ormai preferiscono avere a che fare con un militare al posto di un politico legato alla Francia o all’Occidente. Meglio i militari al potere di fragili, disfunzionali e corrotte democrazie.

Lo stato delle cose in Sahel e, nello specifico, in Mali hanno posto la Francia ed i suoi partner davanti ad un bivio. Abbandonare il Mali al suo destino o tentare in qualche modo di rimanere al margine senza però lasciare completamente il campo ed aspettare che si calmino le acque (sperando nella non tenuta delle giunte militari).

Nel primo caso il rischio risiede nel fatto che un ritiro totale (forse inevitabile almeno nel Mali), non compensato dall’agire dalle esigue forze russe (circa 1000 uomini della Wagner), possa lasciare briglia sciolta all’insediamento ed espansione di gruppi armati terroristici che sono già presenti sul terreno e che vedono la partenza della Francia come una loro vittoria (alcuni capi tribù locali hanno stretto accordi con i Jihadisti superando di fatto una linea rossa, infatti i francesi non trattano con i terroristi). Il ritiro delle forze francesi (che segna di fatto la fine dell’operazione Barkhane), insieme al ritiro di tutte le forze europee impegnate nella task force Takuba e la sospensione della missione Eutm, lasciano nella regione solo le forze della missione di pace dell’ONU (con organico notevolmente ridotto dato che, anche qui, molti paesi si ritirano). Questo scenario ci porta a considerare la prima opzione, con le annesse catastrofiche conseguenze, come altamente probabile. La possibilità che l’intervento delle forze del gruppo Wagner sia un fiasco è molto concreto, come successo in Mozambico dove i mercenari hanno subito pesanti perdite nella lotta contro Al-Shabaab. Probabilmente i Russi si limiteranno all’addestramento e al supporto dell’esercito del Mali senza però lanciarsi direttamente in campagne contro le forze islamiste. Queste forze si espanderanno sempre di più, secondo una tendenza delineatasi già negli scorsi anni, arrivando a toccare tutti i paesi confinanti che rischiano di essere travolti da queste forze destabilizzanti. Una ritirata da queste zone potrebbe significare la perdita definitiva di un equilibrio che, seppur precario, garantiva un minimo la stabilità del Sahel.

Un secondo scenario potrebbe invece prevedere un mantenimento, in buona parte indiretto, del controllo (principalmente Francese) sulla zona, tramite basi dislocate nei paesi confinanti o geograficamente vicini, tra cui il Chad, la Repubblica Centroafricana, la Costa d’Avorio, il Niger, il Senegal ed altri dove la Francia potrebbe riallocare le forze smobilitate dal Mali. L’assenza di truppe francesi ed alleate nel paese potrebbe essere compensata da una maggiore mobilità, lavorando sulla capacità di dispiegamento rapido nelle zone confinanti, al fine di limitare la capacità di dispersione dei gruppi islamisti. Questo permetterebbe, ad esempio nel caso di un processo di transizione democratica nel Mali, di tornare rapidamente ed in forze nel paese. Non è infatti pensabile che la Francia in primis, ma anche l’Europa lascino la presa su una zona di tale importanza.

Probabilmente nel medio termine la soluzione sarà una via di mezzo. Fra qualche anno la Francia e i suoi partner UE potrebbero tornare in Mali, magari in seguito al probabile ritiro dei Russi dovuto all’incapacità di gestire la situazione. Questo permetterebbe ai francesi ed europei di arginare in parte il problema del terrorismo islamico nella regione e dei flussi migratori diretti in Europa.

Volendo fare qualche nome possiamo dire che, per capire in che direzione andrà il Mali (e quindi le conseguenze sull’Europa), bisognerà osservare attentamente le mosse di Assimi Goïta, presidente della giunta militare e colonnello delle forze speciali. La sua stretta collaborazione (durata anni) con gli USA e la Francia, ci fa ben sperare in un futuro riavvicinamento con delle ovvie condizioni, quali cambio di regime, elezioni democratiche, allontanamento dalla Russia ecc.

Conclusioni

In generale, ci sembra importante sottolineare che per la Francia è un momento critico e particolarmente delicato. La recente perdita dello storico alleato Idriss Dèby, presidente del Chad e figura chiave della politica francese nel Sahel, fa scricchiolare tutta l’impalcatura francese di dominio incontrastato del Sahel. La sua morte (aprile 2021) durante uno scontro con i ribelli Fact, gruppo di insorti ciadiani alleati delle forze del Generale Haftar, provenienti dal sud della Libia ed addestrati dai contractors della Wagner, è un’ulteriore prova della pericolosità della presenza Russa in Africa (per non parlare dei “presunti” crimini di guerra commessi dal gruppo Wagner in Africa in questi ultimi anni/mesi).

Per concludere, citiamo un aspetto da non dimenticare. La presenza della longa manus della Turchia (il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu è stato il primo importante rappresentante di una nazione non africana a visitare ufficialmente il Mali dopo il golpe del 2020) che spinge sull’islam politico in questo paese.  Una prova di questa stretta relazione e degli interessi della Turchia in Africa è la dichiarazione di Ankara che definisce il famoso imam salafista Dicko un “important partner in Mali“. Interessante da notare è che l’imam, che ha capeggiato la rivolta popolare contro il presidente Keita nel 2020, in questo momento denuncia apertamente l’arroganza dei militari al governo, chiedendo a gran voce un cambiamento.

Queste dichiarazioni dell’imam ci portano a pensare che potremmo assistere proprio nei prossimi mesi ad un improvviso “cambiamento” (Ci sono stati circa 4 tentati colpi di stato non confermati in Mali negli ultimi mesi).