Il falso storico dei gesuiti vestiti da bonzi per entrare a corte dell’imperatore

Il riferimento di Battiato è a Matteo Ricci, missionario gesuita di origine maceratese, inviato ad evangelizzare l’estremo oriente. Ecco la vera storia

Pechino – La Chiesa commemora oggi Sant’Ignazio di Loyola (leggi qui), fondatore della Compagnia di Gesù. E se si parla di Gesuiti, la mente non può che rievocare i versi di una celebre canzone di Franco Battiato, “Centro di gravità permanente”, noto brano del 1981 pubblicato in origine nell’album “La voce del padrone”.

Il testo recita: “Gesuiti euclidei / Vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori / Della dinastia dei Ming”. Ma se si vanno a consultare i documenti si può notare che la canzone è storicamente imprecisa.

Il riferimento di Battiato è a Matteo Ricci, missionario gesuita di origine maceratese vissuto a cavallo tra la seconda metà del 1500 e gli inizi del 1600. Studioso e matematico, fu inviato come evangelizzatore nell’estremo oriente. Proprio lui, che di matematica ne capiva parecchio, introdusse nella cultura cinese i primi elementi di geometria euclidea, di geografia e di astronomia con l’uso del sestante, traducendo, assieme a un mandarino convertito al cattolicesimo, tale Xu Guangqi, i primi sei libri degli Elementi di Euclide.

Ma davvero si vestì da “bonzo” per farsi accettare alla corte dell’imperatore e aver il placet del regnante per vivere nella capitale? La risposta è no. Per entrare in dialogo con la società cinese, Ricci inizialmente si vestì da bonzo, ovvero da persona dedita alla spiritualità. Però ben presto si accorse che in Cina, a differenza del Giappone, i bonzi non godevano di buona fama.

Per questo motivo lasciò le vesti di bonzo, termine entrato nelle lingue europee grazie a San Francesco Saverio attraverso il quale fa riferimento ai monaci buddisti, e indossò quelle da mandarino maestro e letterato. Grazie a questo escamotage riuscì a farsi accettare all’interno della corte, anche se non conobbe subito l’imperatore. Non solo. Entrò nell’ambiente dell’alta cultura cinese affascinando i colleghi con la sua sapienza. La sua saggezza arrivò fino all’orecchio del sovrano che solo allora lo accolse come suo consigliere.

Dunque Matteo Ricci entrò sì “a corte degli imperatori”, ma vestito da mandarino e non da bonzo. E in un certo senso si deve a Matteo Ricci se nel corso dei secoli il termine “gesuita” si è colorato di sfumature negative diventando sinonimo di “falso” e “ipocrita”, perché una fiorente letteratura antigesuitica ci dipingeva come disposti a tutto pur di raggiungere posizioni di potere.

Ricci, in effetti, usava come strategia apostolica quella di ingraziarsi i regnanti locali, magari con doni sorprendenti provenienti dall’Europa che suscitavano curiosità e attiravano l’attenzione. Ma il suo fine ultimo non era quello di ottenere potere, bensì di evangelizzare e garantire una struttura sociale che permettesse al cristianesimo di radicarsi e svilupparsi.

E la storia gli dà ragione. Il 24 gennaio 1601, infatti, Ricci fece il suo ingresso a Pechino. Tre giorni dopo, ammesso a corte, offrì alcuni quadri raffiguranti il Cristo Salvatore, la Vergine Maria e San Giovanni, assieme ad altri doni di vario genere. Appena un anno dopo, nel 1602, fu inaugurata la prima missione cattolica a Pechino. Grazie alla sue amicizie con l’élite del Paese ebbe ben presto la licenza di celebrare la messa in pubblico.

Ricci continuò ad evangelizzare la città, tanto che nel 1609 fondò la Confraternita della Madre di Dio e dette inizio ai lavori della prima chiesa pubblica di Pechino. La sua autorità e il suo prestigio sociale divennero tali che la madre dell’imperatore e numerose dame di corte si convertirono alla fede cattolica. Alla sua morte, tutti i contributi del missionario vennero pienamente riconosciuti dall’imperatore Wanli.

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