Vivere, non vivacchiare: fede e azione dei giovani
La frase attribuita al Beato Pier Giorgio Frassati provoca tutti noi: “Vivere, non vivacchiare”. Ci provoca nel profondo, ci fa domandare se stiamo veramente vivendo appieno questa nostra vita o la stiamo sprecando. Ci fa riflettere su cosa significhi per noi vivere e quindi comprendere le nostre passioni, costringendoci a riformulare le nostre priorità nella vita così da non arrivare alla sua fine realizzando di non aver mai vissuto ma solo vivacchiato.
In una catechesi sui Comandamenti lo stesso Papa Francesco, riferendosi ai giovani lì presenti, ha commentato questo pensiero di Frassati: “il pericolo più grande della vita è un cattivo spirito di adattamento che non è mitezza o umiltà, ma mediocrità, pusillanimità. […] Il Beato Pier Giorgio Frassati – che era un giovane – diceva che bisogna vivere, non vivacchiare. I mediocri vivacchiano. Vivere con la forza della vita”.
Ma cos’è questa “forza della vita”? È senz’altro un qualcosa che ci fa pensare a qualche forte concetto impulsivo, ma non ci dà alcuna indicazione su cosa sia concretamente. Non ci dice come riuscire a vivere e non vivacchiare, anche se non è un caso che il Papa ne parli in una catechesi sui comandamenti…
Il Pontefice stava infatti commentando un passo del Vangelo di Marco (cfr Mc 10,17-22) in cui un tale si avvicinò a Gesù chiedendogli “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
La domanda di quest’uomo del Vangelo è dentro ognuno di noi: come si trova la vita, la vita in abbondanza, la felicità? Da questa domanda si vede come quell’uomo (e potrei osare di dire ognuno di noi) non ha la vita piena, cerca di più, è inquieto. Ma a questa inquietudine ci vengono presentate due chiare risposte: i comandamenti e la sequela. In che senso però?
La fede nei comandamenti
Vediamo come i comandamenti vengono qui intesi. Anzitutto precisiamo che questi compaiono due volte all’interno della Bibbia (Esodo 20 e Deuteronomio 5) e sono conosciuti sotto il nome di “Decalogo”, ovvero “dieci parole” o “dieci discorsi”. Nell’ermeneutica biblica attuale spesso si preferisce esporli come “dieci consigli” per vivere una vita piena. Ma come possono essere dei consigli se appaiono come degli imperativi?
Prendendo in prestito le parole del Card. Gianfranco Ravasi ribadiamo anche noi come ha spesso infastidito questo tono imperativo-negativo, da indice minaccioso puntato, e la proibizione incombente in quel continuo “Non fare”, interrotto solo per i precetti del sabato e dell’onorare i genitori (interruzione che per i più attenti non è affatto casuale, bensì escatologica). In realtà, siamo in presenza di un espediente linguistico di matrice semitica volto ad esaltare l’incisività “lapidaria” del comando e la sua totalità che non ammette scusanti, repliche ed eccezioni. Ma il senso, sotto il gelo dell’imperativo vietante, è certamente anche positivo e creativo.
È un senso creativo certamente non facile da comprendere se non si conosce il testo, ma proviamo a esporre qui un esempio di lettura in positivo del Decalogo che ci può tornare utile per rispondere a quella domanda iniziale: come facciamo a vivere e non vivacchiare?
Prendiamo la quinta parola del Decalogo o il quinto comandamento, se così lo vogliamo chiamare. Questo è il più lapidario e, forse, il più significativo: “Non uccidere”. Con due semplici vocaboli si sancisce la sacralità della vita umana.
Questi stanno senz’altro a sancire un forte messaggio, ovvero quello più palese del non togliere la vita a nessun uomo. Ricordiamo infatti anche le parole di Noè: “Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso”, simile a quelle che Gesù rivolse al suo discepolo che aveva con la spada troncato l’orecchio del servo del sommo sacerdote: “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada”. Però questo punto di vista non è certo un consiglio utile per uscire dal nostro vivacchiare… È solo un “requisito di base”.
Comprendendo l’espediente linguistico di matrice semitica, ci domandiamo come possa essere letto in positivo questo comandamento. Qual’è quella frase positiva e propositiva che emerge dal “Non uccidere”? Qual’è quell’atto contrapposto all’uccidere se non il donare la vita? È infatti questa la lettura positiva del “Non uccidere” e il consiglio che ne segue: “Dona la vita”.
Il “donare la vita” è uno spendersi per gli altri, sentirli vicini e sentirli fratelli. Questo forse è tra i consigli più veri che si possano avere per iniziare a riempire quel vuoto e quell’insensatezza che il buon Pascal conosce bene… Se viviamo solo per noi stessi non saremo mai felici, l’inquietudine sarà solo accantonata per degli istanti, brevi o lunghi che siano. Solo aprendoci veramente agli altri potremo capire appieno questo consiglio e la pace che ne deriva.
Lo stesso Gesù lo commenta commenta così: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere! Chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio… Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio, dente per dente! Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra.. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico! Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, e pregate per i vostri persecutori!”.
L’azione nella sequela
La vita è breve, non c’è spazio per vivacchiare ed odiare. Siamo tenuti a vivere donando vita, agendo per il bene e per il prossimo con i piedi saldi nel presente ma con uno sguardo sul futuro. Riprendendo le parole di San Giovanni Paolo II: “Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro; voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno; vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti” (“Il testamento di Giovanni Paolo II ai giovani”).
Questo forte invito ha la stessa valenza di quello che Gesù fece a quel tale nel Vangelo che abbiamo visto: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma ben ci ricordiamo come continua il racconto e quale fu la reazione del giovane: “a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni”.
Non facciamoci anche noi scuri in volto, ci è stata infatti posta innanzi una strada da percorrere, una strada che ci permette di vivere e non vivacchiare, allora percorriamola! Non lasciamo il tutto nell’astratto senza renderlo concreto, agiamo! E che sia un’azione per il bene e rivolta verso gli altri. Altri che dobbiamo veramente sentire come nostri fratelli, riuscendone a carpire l’anima dagli occhi.
Ognuno agirà secondo il suo credo, ma ricordiamoci di non farlo da soli! Papa Francesco disse a noi giovani: “sognate e siate costruttori tra le macerie”. È questo ciò che, anche ora, siamo chiamati a fare assieme. Viviamo, non vivacchiamo. Agiamo, non ignoriamo.
Per aspera ad astra.