Francesco: “Oggi c’è questo peccato grave: non curare la pace”
Il Pontefice a Verona prende parte all’incontro “Arena di Pace” e abbraccia un israeliano e un palestinese: “Facciamo finire le guerre”
Verona – “La pace non si inventa da un giorno all’altro, va curata. Nel mondo oggi c’è questo peccato grave: non curare la pace”. Dall’Arena di Verona Papa Francesco tuona nuovamente contro i venditori di armi e implora i Capi di Stato e tutta la Comunità internazionale nuovi sforzi per raggiungere la pace in ogni angolo del pianeta.
L’occasione è l’incontro “Arena di Pace – Giustizia e Pace si baceranno”, centro della visita papale nella città di Romeo e Giulietta. Visita iniziata nella prima mattinata con l’incontro col clero nella Cattedrale di San Zeno, dove il Pontefice cita proprio l’opera di Shakespeare (leggi qui) e proseguita con l’abbraccio ai bambini e ai ragazzi veronesi sul sagrato della basilica (leggi qui).
Quindi il trasferimento in auto all’Arena, gremito da 12.500 persone. Ad attenderlo, tra gli altri, oltre alle autorità civili e militari, anche don Ciotti e don Patricello. Sul palco si alternano momenti di preghiera, musiche, balli. Un vero spettacolo, condotto da Amadeus (per lui ultima diretta sulla Rai, ndr.) al quale prende parte anche Ligabue, che incanta i presenti con le sue melodie.
Per oltre un’ora, il Pontefice risponde ad alcune domande emerse dai tavoli di lavoro che si sono riuniti nei mesi scorsi per approfondire cinque ambiti tematici strettamente legati al tema della giornata. Dal Medioriente vengono proiettati diversi videomessaggi realizzati da donne impegnate nella realizzazione della pace soprattutto tra Israele e Palestina.
“Sto guardando quel cartello ‘Smilitarizziamo mente e territorio’. Stiamo parlando di pace. Ma voi sapete che le azioni che in alcuni Paesi rendono più reddito sono le fabbriche delle armi? Questo è molto brutto”, dice Francesco, che subito ammonisce: “Che cosa brutta preparare alla morte”. Rispondendo ad Annamaria Panarotto, una delle mamme No-Pfas di Vicenza, un gruppo di genitori che si batte contro l’inquinamento dell’acqua che uccide i propri figli, e a Vanessa Nakate, giovane attivista per il clima ugandese, parla della rivoluzione digitale che ci ha permesso di essere sempre connessi: “Stiamo sempre al cellulare e riusciamo a vedere quello che abbiamo di fronte. Dovremmo avere più tempo a disposizione ma ci accorgiamo che siamo sempre in affanno”.
“Sentiamo che tutto questo non è naturale. Nella nostra società si respira un’aria stanca. La pace non si inventa da un giorno all’altro, va curata. Nel mondo oggi c’è questo peccato grave: non curare la pace. Il mondo è in corsa. ‘Rallentare’ può suonare come una parola fuori posto, in realtà è l’invito a ricalibrare le nostre attese e le nostre azioni adottando un orizzonte più profondo e più ampio – ammonisce ancora -. Si tratta di fare una ‘rivoluzione‘ in senso astronomico: andare a cercare la pace. La pace si fa col dialogo. Riconoscere gli altri”. Infine, l’invito a “fermare le aggressioni”, che “si moltiplicano”.
L’individualismo è la radice delle dittature
“La cultura fortemente marcata dall’individualismo rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità – dove c’è individualismo forte sparisce la comunità, e questo forse è la radice delle dittature –. Spariscono la dimensione della comunità e dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità”, dice poi rispondendo a Mahbouba Seraj, venuta qui, ad Arena 2024, da Kabul in Afghanistan, assieme a Giulia Venia del gruppo di lavoro sulla democrazia.
“Chi ricopre un ruolo di responsabilità in un’istituzione politica, oppure in un’impresa o in una realtà di impegno sociale, rischia di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. E questa avvelena l’autorità. E questa è una delle cause della solitudine che tante persone in posizione di responsabilità confessano di sperimentare, come pure una delle ragioni per cui siamo testimoni di un crescente disimpegno”.
“Se l’idea che abbiamo del leader è quella di un solitario, al di sopra di tutti gli altri, chiamato a decidere e agire per conto loro e in loro favore, allora stiamo facendo nostra una visione impoverita e impoverente, che finisce per prosciugare le energie creative di chi è leader e per rendere sterile l’insieme della comunità e della società”.
“Nessuno esiste senza gli altri – osserva Bergoglio –, nessuno può fare tutto da solo. Allora l’autorità di cui abbiamo bisogno è quella che innanzi tutto è in grado di riconoscere i propri punti di forza e i propri limiti, e quindi di capire a chi rivolgersi per avere aiuto e collaborazione”. Il Papa si concentra poi sulla partecipazione da “risvegliare nei giovani”, “grande sfida oggi”. “L’autorità per costruire processi solidi di pace sa infatti valorizzare quanto c’è di buono in ognuno, sa fidarsi, e così permette alle persone di sentirsi a loro volta capaci di dare un contributo significativo”.
Stare accanto ai piccoli
Ma “per porre fine ad ogni forma di guerra e di violenza bisogna stare a fianco dei piccoli, rispettare la loro dignità, ascoltarli e fare in modo che la loro voce possa farsi sentire senza essere filtrata”. Nel rispondere a Elda Baggio di “Medici senza frontiere” presente all’incontro assieme a João Pedro Stédile, che porta dal Brasile con sé l’esperienza del Movimento dei senza terra, il Santo Padre ribadisce che per raggiungere la pace è necessario “incontrare i piccoli e condividere il loro dolore. E prendere posizione al loro fianco contro le violenze di cui sono vittime, uscendo dalla cultura dell’indifferenza che si giustifica tanto”.
Parlando a braccio rivolge poi il pensiero al lavoro minorile: “I piccoli soffrono per colpa nostra, siamo responsabili di tutti. Ma oggi il Premio Nobel che possiamo dare a tanti di noi è il Premio Nobel del Ponzio Pilato. Perché siamo maestri nel lavarci le mani”. Nelle parole del Successore di Pietro anche l’esigenza di una conversione che “cambia la nostra vita e il mondo”. “Una conversione che riguarda tutti noi singolarmente, ma anche come membri delle comunità, dei movimenti, delle realtà associative a cui apparteniamo, e come cittadini. E riguarda anche le istituzioni, che non sono esterne o estranee a questo processo di conversione. Il primo passo è riconoscere che non siamo noi al centro, né le nostre idee e visioni. E poi accettare che il nostro stile di vita inevitabilmente ne sarà toccato e modificato. Quando stiamo a fianco dei piccoli siamo ‘scomodati’”.
La via indicata da Francesco è quella di “camminare con loro”. “Ci costringe a cambiare passo, a rivedere ciò che portiamo nel nostro zaino, per alleggerirci di tanti pesi e zavorre e fare spazio a cose nuove. Allora è importante vivere tutto questo non come una perdita, ma come un arricchimento, una potatura sapiente, che toglie ciò che è senza vita e valorizza ciò che è promettente”.
Non bisogna avere paura dei conflitti
“Se c’è vita, se c’è una comunità attiva, se c’è un dinamismo positivo nella società, allora ci sono anche conflitti e tensioni. È un dato di fatto: l’assenza di conflittualità non significa che vi sia la pace, ma che si è smesso di vivere, di pensare, di spendersi per ciò in cui si crede”, continua il Santo Padre, rispondendo ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e a Sergio Paronetto di Pax Christi. “Da un conflitto mai si può uscire da solo, ci vuole la comunità. Da un conflitto si esce per essere migliori, da sopra. Dobbiamo essere capaci di dare nomi ai conflitti e prenderli per mano. E uscirne da sopra e accompagnati”.
Guardando alla politica, Francesco che “quando nella politica si nascondono i conflitti, scoppiano dopo e scoppiano male. Né in famiglia né nella società si possono nascondere i conflitti. Per questo, quando ci sono problemi in famiglia, dobbiamo parlarne e chiarirli. Quando ci sono problemi nella società dobbiamo condividerli. Ma da solo non si esce”.
Un’altra “risposta dal fiato corto” è quella di “risolvere le tensioni facendo prevalere i poli in gioco e questo è suicidio perché si riduce la pluralità di posizioni a una unica prospettiva”. “L’uniformità non serve, serve l’unità. E per avere l’unità occorre lavorare con i conflitti. Non avere paura dei conflitti, bisogna imparare a risolverli. Siamo chiamati a lasciarci interpellare dal conflitto per metterci alla ricerca di come risolverli, dell’armonia”.
La dimensione comunitaria
In chiusura, Papa Francesco abbraccia Maoz Inon, che viene da Israele e i cui genitori sono stati uccisi il 7 ottobre, assieme ad Aziz Sarah, palestinese, che ha perso in guerra suo fratello. “Davanti alla sofferenza di questi di fratelli, che è la sofferenza di due popoli, non si può dire nulla. Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi che non è solo testimonianza ma anche un progetto di futuro”.
“Entrambi hanno perso i familiari. La famiglia si è rotta per questa guerra. A che serve la guerra? Facciamo uno spazio di silenzio perché non si può parlare troppo. Serve sentire”. E sono proprio loro due a portare al Santo Padre l’appello alla delle madri che Francesco firma.
“La pace non sarà mai frutto della diffidenza, dei muri, delle armi puntate gli uni contro gli altri. Non seminiamo morte, distruzione, paura. Seminiamo speranza! È quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace. Non smettete. Non scoraggiatevi. Non diventate spettatori della guerra cosiddetta ‘inevitabile’. Come diceva il vescovo Tonino Bello: ‘In piedi costruttori di pace!'”, conclude il Papa. (foto © Vatican Media)
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