Francesco: 11 anni di un pontificato incompreso

Dal pontificato dei gesti a quello delle parole (e dei silenzi): la “rivoluzione bergogliana” fatica a essere compresa, in Vaticano e in ogni ambiente della Chiesa

Città del Vaticano – In quel bagnato 13 marzo di undici anni fa, si riuscì appena ad intuire quale rivoluzione sarebbe stata la salita al Soglio Pontificio di Francesco per la Chiesa tutta. Un conclave breve, appena un giorno, terminato dopo soli cinque scrutini. I cardinali lo andarono a prendere “quasi alla fine del mondo”. Bastarono un semplice “Buonasera” e un “Arrivederci”, intervallati da una preghiera per il suo predecessore, quel giorno ancora in vita, per conquistare immediatamente tutti, credenti e non. Un incanto che durò poco. Le sue scelte, le sue parole, i suoi gesti, i suoi atteggiamenti… tutto, fin da quel giorno, alimentò polemiche. Anche – e soprattutto – all’interno della Chiesa. E dello Stato della Città del Vaticano.

Francesco: nomen omen

Nel caso del successore di Benedetto XVI, il nome era già tutto un programma: Francesco. Scelto “per non dimenticarsi mai i poveri”, come il poverello di Assisi ottocento anni prima, Bergoglio ha scelto di riparare (a suo modo) la Chiesa, iniziando a spogliare il papato da quei pochi simboli di regalità che le erano rimasti: via il trono e via le residenze (Castel Gandolfo e il Laterano trasformati in musei aperti al pubblico).

I protocolli delle cerimonie si alleggeriscono (e tuttavia vengono comunque infranti in diverse occasioni). I baciamano diventano siparietti a tratti comici: autorità civili e religiose in fila per salutarlo e lui che sfila la mano nel momento in cui questi cercano di portarla alla bocca. Niente più cappelli, ermellini e mantelli.

Ma questo c’era da aspettarselo visto che il giorno dell’elezione sulla Loggia delle Benedizioni, a differenza dei suoi predecessori, si affacciò solo con la talare bianca. Niente mozzetta rossa. La stola per l’Urbi et Orbi indossata poco prima della benedizione e subito tolta.

Le liturgie papali vengono “decentrate”. San Pietro e San Giovanni il Laterano non sono più il luogo di riti importanti. Dal Corpus Domini alla Messa in Coena Domini, ogni anno Francesco sceglie un luogo diverso: una parrocchia, un carcere, un centro d’accoglienza. In quelle periferie, geografiche ed esistenziali, Francesco ha deciso di portare la Chiesa come “ospedale da campo”. Un occhio di riguardo lo ha anche per i clochard del centro di Roma che vivono nelle tende sotto il colonnato del Bernini: a loro mette a disposizione docce, barbiere, medico e un palazzo che può essere usato come ricovero.

C’è poi l’aspetto della misericordia, uno dei mantra di questi undici anni di pontificato. San Francesco riuscì ad ottenere un’indulgenza passata alla storia col nome di “Perdono d’Assisi”; il Papa che ottocento anni dopo porta il suo nome ha indetto un Giubileo straordinario, concedendo a tutti i sacerdoti di assolvere sempre il peccato di aborto.

Problemi di comunicazione?

Ma la “rivoluzione bergogliana” fatica a essere compresa. Liturgisti e canonisti in primis “contestano” al Pontefice un modus operandi non proprio in linea con la tradizione della Chiesa. Se a questo aggiungiamo la pseudo informazione dei grandi media su quanto avviene all’ombra del cupolone, il messaggio di “restauro” della Chiesa che Francesco aveva in mente risulta sempre più di difficile comprensione.

Complice una pessima comunicazione delle istituzioni vaticane, all’esterno delle mura leonine la percezione che si ha di questi undici anni di pontificato stride con le aspettative che molti coltivarono nei primi mesi del 2013.

Perché se è vero che dopo Ratzinger serviva un punto di rottura col passato, è pur vero che la Chiesa non può tradire la sua natura. E così, nell’opera di modernizzazione avviata dal Papa si fa spazio il concetto che più di tutti fatica ad essere compreso: deve cambiare la prassi ma non la dottrina.

Un esempio su tutti è la dichiarazione Fiducia supplicans. Scritto male e comunicato peggio (del resto non era mai accaduto che a un testo del Sant’Uffizio seguisse un chiarimento del medesimo Dicastero), il documento sulle benedizioni alle “coppie irregolari” ha riacceso anche la solfa del “Papa eretico”.

Un titolo attribuito a Francesco negli anni passati soprattutto quando Francesco optava una scelta che si poneva in totale opposizione al magistero di Benedetto XVI (ancora in vita), o durante le celebrazioni dei Sinodi sulla famiglia o sull’Amazzonia.

A questo bisogna poi aggiungere la gestione (buona o cattiva sarà la storia a deciderlo) della giustizia vaticana, della Diocesi di Roma e dei rapporti col clero romano, quasi del tutto interrotti. C’è poi la questione guerre e migranti. Nel primo caso diverse dichiarazioni hanno accesso lo sdegno e l’ira del popolo ucraino, nel secondo diversi stati europei lo hanno accusato più volte di ingerenza. Che sia tutto un fraintendimento o un problema di comunicazione, come direbbe una nota influencer italiana? Rispondere a questa domanda può risultare complicato.

Dal quel primo “Buonasera”, al “Buon pranzo” pronunciato domenica al termine dell’Angelus sono passati poco più di due lustri durante i quali non solo la Chiesa è cambiata. Sono cambiati i credenti, sempre di meno secondo i numeri ufficiali, sono cambiati i Capi di Stato… il pianeta stesso è cambiato, grazie soprattutto allo sfruttamento delle risorse e al menefreghismo della società consumistica. I problemi, quelli veri, però, non sono cambiati. Francesco ne è consapevole e forse è per questo che, come dice qualcuno, “ripete sempre le stesse cose”. E se fatichiamo a comprenderlo forse è il caso di domandarsi se siamo in grado di ascoltare (foto © Vatican Media)

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